Fernando Mazzocca, Il sole 24 ore 1/11/2009, 1 novembre 2009
Il lato dolente di don Lisander- Ritrovato un ritratto inedito di Manzoni: lo disegnò a matita il genero Massimo d’Azeglio intorno al 1835 E c’è pure una didascalia di pugno dello scrittore - L’autore dei Promessi Sposi era provato dalla recente perdita della moglie Enrichetta e della figlia Giulietta L’immagine di Alessandro Manzoni è stata e viene ancora per lo più divulgata da due ritratti tra loro piuttosto vicini per cronologia e ubicazione
Il lato dolente di don Lisander- Ritrovato un ritratto inedito di Manzoni: lo disegnò a matita il genero Massimo d’Azeglio intorno al 1835 E c’è pure una didascalia di pugno dello scrittore - L’autore dei Promessi Sposi era provato dalla recente perdita della moglie Enrichetta e della figlia Giulietta L’immagine di Alessandro Manzoni è stata e viene ancora per lo più divulgata da due ritratti tra loro piuttosto vicini per cronologia e ubicazione. Riprodotti un’infinità di volte, e dunque molto famosi ma ormai inevitabilmente considerati con lo sguardo distratto della troppa consuetudine, sono quello eseguito a due mani, da Giuseppe Molteni per quanto riguarda la figura e da Massimo d’Azeglio che realizzò lo sfondo dove è rappresentato «quel ramo del Lago di Como», e quello anch’esso un capolavoro, il più popolare tra i due, di Hayez. Nel primo Manzoni è in piedi, con lo sguardo ispirato e le braccia conserte mentre tiene in mano una copia dei Promessi Sposi, nel secondo se ne sta invece seduto contro un fondale neutro che consente così di concentrare l’attenzione sul volto. Come sorpreso nell’intimità domestica stringe con la sinistra una tabacchiera. Uno è appeso in alto sopra la porta della Sala Manzoniana – affollata di libri, autografi e qualche cimelio – nella Biblioteca Nazionale Braidense, l’altro è esposto alla fine del percorso della Pinacoteca di Brera. Tra questi due magnifici dipinti, realizzati rispettivamente nel 1835 e nel 1841, è possibile collocare ora un terzo ritratto "autorizzato" del personaggio che, già in vita, era diventato una leggenda. Si tratta di uno straordinario disegno a matita su carta, che si è conservato in tutta la sua commovente freschezza proprio perché rimasto per tanto tempo segreto, siglato sul bordo inferiore del foglio da un autografo a penna del ritrattato, che esprime questa considerazione: «Nel fare un ritratto somigliante, mi pare che un pittore deva spesso provar quel piacere che avrebbe chi dovesse trascrivere un manoscritto sparso di errori di ortografia, senza poterci fare le correzioni necessarie / Alessandro Manzoni». Già citata, ma non nella dizione corretta che ora è possibile verificare, la frase conferma il suo scetticismo rispetto alla possibilità di poter conciliare, ritraendo una persona, la somiglianza fisica con la rappresentazione della sua interiorità, delle qualità morali o intellettuali. Da questo derivava la sua caparbia avversione a farsi ritrarre e il vero fastidio di fronte alle richieste che diventavano naturalmente sempre più frequenti e incalzanti col crescere, grazie al l’enorme successo riscosso dal romanzo, della sua popolarità. Sappiamo che intervenne molte volte a stroncare le iniziative degli artisti che, non venendo autorizzati, cercavano con ogni stratagemma, a volte con la complicità degli amici, di "rubarne" le sembianze. Per esempio nel 1829 alle insistenze del pittore boemo Pock, rispose con insolita durezza: «Al troppo cortese e indulgente capriccio ch’Ella di volere di buon acquisto la mia povera immagine, io non mi posso prestare: la è in me una ripugnanza invincibile, o, se le par meglio detto una fissazione. Quanto alla pubblicazione dei ritratti rubati, io, per quel che mi riguarda, ho un mezzo per impedirla, un mezzo infallibile con persona come Lei; ed è l’assicurarla, come fo, che la cosa mi darebbe un vero dispiacere». Manzoni finì con esprimere anche in un curioso passaggio dei Promessi Sposi questa sua convinzione. Don Abbondio, Agnese e Perpetua, diretti al castello dell’Innominato dove contano di rifugiarsi dalla calata dei Lanzichenecchi, si sono fermati nella casa del sarto. Dopo la cena, il loro ospite ricorda ancora una volta la recente visita del cardinale Federigo, di cui aveva voluto conservare un ricordo: «Alzati poi da tavola, le fece osservare una stampa rappresentante il cardinale, che teneva attaccata a un battente d’uscio, in venerazione del personaggio, e anche per poter dire a chiunque capitasse, che non era somigliante; giacché lui aveva potuto esaminare da vicino e con comodo il cardinale in persona, in quella medesima stanza. "L’hanno voluto far lui con questa cosa qui?" disse Agnese. "Nel vestito gli somiglia; ma...". "N’è vero che non somiglia?" disse il sarto: "lo dico sempre anch’io: noi, non c’ingannano, eh? Ma, se non altro, c’è sotto il suo nome: è una memoria"». Ma non sempre la popolana diffidenza di Manzoni riuscì a sottrarsi agli inganni dei pittori. Sappiamo che almeno due volte aveva dovuto cedere. La prima era stato proprio d’Azeglio a convincerlo, vantando probabilmente l’abilità di Molteni, con cui del resto allora condivideva lo studio. Ma quando i due complici avrebbero voluto incastrarlo, facendosi una enorme pubblicità attraverso la presenza del ritratto al l’esposizione di Brera, arrivò un alt senza possibilità di replica: «Quando a d’Azeglio venne il capriccio di volere su una tela un povero soggetto e un lavoro squisito, io gli protestai che la cosa doveva rimanere privatissima, e sempre che ne venne il discorso, ho ecluso espressamente l’esposizione». Si tratta del passo cruciale di una lettera diretta a Molteni, vero capolavoro di feroce diplomazia, da me resa nota in questo giornale (domenica, 21 luglio 1996), cui ora si può aggiungere la testimonianza di un’altra capitolazione di Manzoni, sempre nei confronti del diabolico d’Azeglio, da cui si fece dunque docilmente ritrarre in questo disegno, straordinariamente finito, certamente più rivelatore rispetto ai dipinti di Molteni e di Hayez, voluto dalla seconda moglie Teresa Borri Stampa e dal di lei figlio Stefano, dell’intimità manzoniana. L’immagine ripresa di profilo, mentre nei due precedenti appare frontale, sembra prestarsi meglio a rendere l’inquietudine dell’uomo nella fase, come vedremo, forse più dolorosa della sua lunga vita. Del resto il giovane aristocratico torinese, destinato a una multiforme carriera, «artista e letterato e musico e scrittore di scienze politiche e condottiero di truppe e presidente di ministero», era riuscito, quando nel 1831 aveva deciso di trasferirsi a Milano dove intravedeva la possibilità di avere successo e di arricchirsi come pittore, a fare subito breccia nel cuore di Manzoni. Per partire infatti con il piede giusto pensò bene di imparentarsi con l’uomo più famoso non solo di Milano, ma d’Italia. Scrisse, con il suo solito spavaldo cinismo, al suo fedele intendente: «La mia idea di diventar cognato dei promessi sposi potrebbe forse realizzarsi». Il 9 aprile 1831 arrivava nella casa di via Morone un’esplicita richiesta: «Posso dire d’essere venuto a Milano apposta per conoscere la di lei famiglia. Desiderava conoscere lei Desiderava poi conoscere la di lei figlia della quale ho sentito dir tanto bene dai miei. Senza più lungo esordio le dico col cuore che mi stimerei troppo felice di poterle essere genero». Massimo e Giulietta Manzoni si sposarono il 21 maggio. Tutto avvenne dunque rapidamente. Del resto Giuseppe Rovani noterà come «il nome di d’Azeglio» fosse corso «per la città nostra colla rapidità del telegrafo elettrico». Del resto «era giovane di modi agili e pieghevolissimi; e aveva la grande arte di essere tutto quello che bisognava che fosse...». Milano era considerata la «Parigi dell’Italia, a quel tempo, l’Atene della Lombardia, come la chiamavano i professori di retorica, l’Eldorado, come la chiamavano gli speculatori di professione. E l’Azeglio – concludeva Rovani – volò dove tutti volano». Certo un tale matrimonio gli giovò moltissimo, come l’istintiva simpatia del suocero che ammirò subito, come ci riferisce nelle sue Reminiscenze Cesare Cantù, «quella universale abilità che a lui mancava: egli sonare, egli cantare, egli ballare, cavalcare, giocar di scherma, di bigliardo, di carte». In una lettera del novembre, pochi mesi dunque di quel matrimonio strategico, d’Azeglio poteva trarre un bilancio davvero lusinghiero della sua nuova vita milanese, così diversa rispetto agli scapiglati anni romani, «la vita nostra scorsa, che i missionari chiamano scapestrata e cattiva». Si dichiarava «ogni giorno più contento» della propria situazione, «prima di tutto per le qualità fisico-morali di mia moglie, poi per le relazioni che mi ha procurato sia della famiglia Manzoni, sia di tutti quei dotti e semidotti del paese e forestieri che concorrono a questo capo battaglione della letteratura italiana». Insomma era «contento d’aver chiuse le vele, e gettato l’ancora in un porto che non è il peggior del mondo né il più spiacevole». Così il successo come pittore, in un genere nuovo da lui inventato chiamato il "paesaggio istoriato" cioè animato da episodi storici o letterari, lo rendeva grato a una città dove «v’è moltissimo gusto per le arti, e gli ammiratori e mecenati hanno il giudizio di conoscere che il miglior modo di tributare ammirazione si è di aprir la borsa, e lasciar che i favoriti delle muse possano introdurvi la mano». Dopo la nascita nel gennaio 1833 della figlia Alessandrina (la Rina), la vita della famiglia precipitò nel lutto. Prima con la morte della moglie di Manzoni, Enrichetta Blondel, avvenuta il giorno di Natale dello stesso anno, cui seguirà, il 20 settembre di quello successivo, la scomparsa della stessa Giulietta, stroncata a Brusuglio dalla "tabe mesenterica". Meno di un anno dopo Massimo si risposò con Louise Maumaray, cugina di Enrichetta chiamata in casa la tante Louise, con la quale sembra che avesse già da tempo una relazione che aveva pure fatto ingelosire Giulietta. Manzoni fece causa a d’Azeglio relativamente all’eredità della piccola Rina. Poi, il loro rapporto tornò rapidamente come prima e lui continuava a scrivergli chiamandolo "carissimo papà". La sua vitalità lo faceva perdonare sempre. L’ex suocero, provato dalla scomparsa delle persone a lui più care, era come smarrito, affidato all’indomita madre Giulia Beccaria, la quale confidava a un’amica «che non poteva mai lasciare Alessandro, che era come un bambino, che lei era molto vecchia e tremava all’idea di lasciarlo solo quando fosse morta». Guardando questo disegno ci colpisce come proprio il cinico d’Azeglio sia riuscito, proprio in quel terribile frangente biografico – l’opera dovrebbe collocarsi poco prima o poco dopo il ritratto di Molteni del 1835 ”, a fissare con commossa partecipazione la fragilità e la solitudine del grande uomo.