Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 3/11/2009, Adriano Sofri, Corriere 4/11/09, 3 novembre 2009
«IO E LOTTA CONTINUA, IL GERME DELLA VIOLENZA C’ERA GIA’ ALLE ORIGINI»
(Con replica di Sofri) -
«E’ una storia, quella cominciata quarant’anni fa, che sento raccontare a volte in modo compiaciuto, a volte in modo falso. E’ falso che piazza Fontana abbia rappresentato la ”perdita dell’innocenza” per una generazione di militanti di sinistra. E’ falso che Marino possa essersi inventato di aver condotto l’auto dell’assassino di Luigi Calabresi. Ma questo gli ex di Lotta continua lo sanno tutti».
Andrea Casalegno sta per compiere 65 anni. «Molti più di quelli che aveva mio padre quando fu assassinato dalla Brigate Rosse». Carlo Casalegno, azionista, partigiano, vicedirettore della Stampa su cui teneva la rubrica «Il nostro Stato», morì a Torino il 29 novembre 1977. «L’attentato» si intitola il libro, pubblicato da Chiarelettere, in cui suo figlio ricostruisce la tragedia della famiglia. Sempre a Torino, quarant’anni fa, era nata dall’autunno caldo Lotta continua, di cui Andrea Casalegno fu un militante.
«E’ una storia che comincia bene ma quasi subito conosce un’involuzione. C’ero: partecipai all’occupazione dell’università, andavo alle assemblee studenti-operai. Gli operai si ribellavano dopo quindici anni di un controllo oppressivo e oscurantista, e lo facevano nonostante il Pci e i sindacati ’pompieri’, come allora li definivamo, avvicinandoci molto alla realtà. Certo, so bene che quando il padrone perde il controllo della fabbrica sono guai, non biasimo la marcia dei 40 mila e l’operazione coraggiosa con cui la Fiat riprese le redini. Ma ho un ricordo e un giudizio positivo di quelle lotte. Presto però nascono i partitini. Comincia l’irrigidimento ideologico. E comincia la violenza. Fu giusto scrivere libri come ’La strage di Stato’, scoprire le radici nere di piazza Fontana. Ma non fu giusto – sostiene Casalegno – definire piazza Fontana come ’la perdita dell’innocenza’ per i rivoluzionari di sinistra. E’ un’espressione di cui si palleggiano la paternità due persone tra loro diverse come Luigi Manconi e Adriano Sofri; ma, pur essendo teste pensanti e brillanti, hanno tutti e due torto. Qualsiasi persona sensata sa, anche senza aver letto Machiavelli e Sartre, che chi fa politica non è mai innocente; dire il contrario è ridicolo. Oltretutto sappiamo per bocca di un fondatore, Alberto Franceschini, che i futuri brigatisti già si preparavano alla lotta armata. Attribuire la responsabilità del terrorismo rosso alla bomba di piazza Fontana è una sciocchezza. Le responsabilità sono sempre personali, e vanno sempre separate le une dalle altre. Anche se la strategia della tensione ebbe certo un ruolo nel precipitare il paese negli anni di piombo».
Nel maggio 1972, Andrea Casalegno fu arrestato a Torino, per aver distribuito i volantini con cui Lotta continua approvava l’omicidio di Calabresi. «Ero entrato da poco in Lc, dopo 18 mesi di servizio militare. Quando seppi dell’assassinio del commissario, pensai che il nostro gruppo fosse del tutto estraneo. Ucciderlo mi pareva un’aberrazione non solo morale ma politica: a noi Calabresi serviva vivo, in vista del processo che avrebbe dovuto far luce sulla morte di Pinelli, di cui i principali giornali italiani avevano accreditato versioni inverosimili. Completamente diversa fu la mia reazione quando, sedici anni dopo, seppi dell’arresto di Sofri. Soprattutto perché c’era di mezzo Marino». Perché? «Perché tutti sapevano benissimo chi era Leonardo Marino. Solo qualche sprovveduto può ancora far finta di ignorarlo ». Vale a dire? «Marino non era uno qualsiasi. Fu la prima avanguardia Fiat licenziata – e mai riassunta - per la sua attività politica. L’emblema dell’operaio-massa. Ed era politicamente e umanamente molto vicino a Sofri. ’Marino libero, Marino innocente’ non è più di una battuta. Difficile che abbia agito di testa sua; del resto, in un’organizzazione rivoluzionaria chi mette a repentaglio le vite dei compagni con un’azione inconsulta viene allontanato, e questo a Marino non è accaduto. Ci vuol davvero molta ingenuità, o peggio, a sostenere che si sia inventato ogni cosa. Non è così. E questo gli ex di Lotta continua lo pensano tutti». Ma non lo dicono. «Sì invece. A ben vedere, in molti l’hanno fatto capire, magari per allusioni. Ma non voglio esprimermi oltre. Non è mia intenzione maramaldeggiare. Certo non troverete la mia firma in calce ai manifesti che protestano l’assoluta estraneità di Sofri. Né del resto mi è mai stata chiesta. Non frequento più i vecchi compagni, tranne un paio di veri amici ».
Furono due compagni di allora, Gad Lerner e Andrea Marcenaro, a intervistare Casalegno per il quotidiano Lotta continua, dopo il ferimento del padre. Un’intervista in cui Casalegno rievocava la prima azione delle Br, il sequestro Macchiarini (marzo 1972): «A noi di Lc quel rapimento non era dispiaciuto perché, dicevamo, e forse era vero, un sacco di operai ne erano contenti. Però quello era il primo passo nella logica che li ha portati a sparare in faccia a mio padre, senza neppure conoscerlo». Oggi però Casalegno dice che «quell’intervista fu sopravvalutata. Sì, molti fanno risalire ad allora la propria presa di coscienza. Però quella notte le copie del giornale furono bruciate davanti ai cancelli di Mirafiori.
Ricordo la sorpresa con cui fu annotata la commozione degli amici di papà al suo capezzale: ci si stupiva nel notare che gli azionisti torinesi non erano esponenti della borghesia marcia e ipocrita, che erano uomini come noi». Giovanni De Luna ha ravvisato un tratto comune, ad esempio nel moralismo, tra gli azionisti torinesi e i militanti di Lotta continua. «Una parentela c’era, anche in senso tecnico – dice Casalegno - . Molti di noi, da Revelli a Gobetti ad Agosti, eravamo figli o nipoti di azionisti, così come altri venivano da famiglie comuniste. Ma i nostri padri si erano battuti contro nazisti e fascisti, ed erano nel giusto. Noi ci siamo battuti per la rivoluzione, ed eravamo nel torto.
Molti però sono tuttora convinti di aver sempre avuto ragione, sia all’epoca sia oggi che magari lavorano per il nostro presidente del Consiglio o militano nel suo campo. Invece abbiamo commesso errori terribili. E non lo dico perché sono il figlio di una persona assassinata. Certo è impossibile arrivare a una memoria completa, ma non dobbiamo smettere di esercitare la riflessione critica, la ricerca storica. Sono contrario a colpi di spugna, a una presunta pacificazione per chiudere una guerra che non è mai esistita. La penso come il figlio del giudice Galli, assassinato nell’80 da Prima Linea, l’organizzazione terroristica nata dal servizio d’ordine di Lotta continua: sono contrario a film come quello che getta una luce accattivante su Sergio Segio, che di Prima Linea fu uno dei capi. Tutto è lecito, ma non tutto è opportuno».
4/11/09
Gentile direttore, ho letto l’intervista ad Andrea Casalegno. Vorrei dire che cosa penso dei punti cruciali, che vengono presentati come se rivelassero qualcosa. A cominciare dal legame fra Leonardo Marino e me. La cui evidenza è stata fin dall’inizio (dal 1988, quando fui arrestato) il filo conduttore della vicenda: il figlio chiamato Adriano, i soldi che gli avevo dato... Mi chiesero come mai gli avessi dato dei soldi, se non per comprare il suo silenzio. Perché me li aveva chiesti, spiegai, perché gli ero affezionato, perché era povero e ne aveva bisogno per la sua famiglia: e documentai cifre e circostanze. In Lotta Continua, dice Andrea, tutti pensano che Marino dica la verità. Non so. Però so la verità. Non ebbi il colloquio che Marino mi attribuì, non gli diedi alcun mandato. Io lo so, e lo sanno per certo coloro che furono testimoni dei miei movimenti nella circostanza in cui Marino volle collocare il colloquio. Non diedi alcun mandato, e dunque non coinvolsi Lotta Continua – tutte le sue persone, compreso Andrea Casalegno – nella responsabilità di un omicidio.
Di tutte le altre responsabilità mi sono fatto carico, e non certo per difendermi in un tribunale. La mia condanna’ che continuo a scontare – autorizza chiunque lo voglia a dichiararmi mandante provato dell’omicidio di Calabresi. Ma la condanna non cambia la verità, né la mia saldezza nel sostenerla. Dice Andrea – pensiero che dà il titolo alla pagina – che «il germe della violenza c’era già alle origini», dunque prima della strage di piazza Fontana; e critica la definizione del 12 dicembre del ”69 come la data della «perdita dell’innocenza». Io l’ho detto da tempo. In particolare, proprio in un’intervista al Corriere del 2 aprile 2004. «Così abbiamo perduto l’innocenza. Ma oggi mi interrogo sulla sensatezza di questa formula... Si tratta dell’idea: chi è innocente scagli la prima pietra. l’espediente che Gesù usa per non fare lapidare l’adultera.
Questo stratagemma evoca un problema morale straordinario: è proprio vero che chi è innocente può scagliare la prima pietra? Noi oggi ci comportiamo così nei confronti del racconto di piazza Fontana. Innocenti come eravamo, toccava a noi per diritto, diritto che è divenuto poi la nostra dannazione, tirare la prima pietra. Poi quando l’hai scagliata non sei più innocente. E non a caso poi ne tiri un’altra e un’altra ancora. Fino a divenire un lanciatore di pietre. Quasi un lapidatore: persino a noi successe.
La campagna contro Calabresi diventò una specie di lapidazione... In realtà innocenti non lo eravamo. La verità è che l’innocenza come condizione originaria è molto difficile da trovare.
Lo choc della strage per noi fu fortissimo, un colpo che ti fa tramortire: tuttavia eravamo militanti politici con una grande voglia di fare la rivoluzione da anni. Questo rende contraddittoria e parziale quella definizione di innocenza... la trasforma in una specie di autoassoluzione un po’ troppo indulgente. Mi chiedo: senza la strage di piazza Fontana, avrei tirato la mia prima pietra o no? Secondo me sì. Anzi forse l’avevamo già tirata». E alla domanda: «Vuole dire che la violenza era già dentro il movimento?», risposi: «Noi non abbiamo cominciato a credere non solo nella necessità ma addirittura nella virtù della violenza dopo il 12 dicembre. Noi ce ne riempivamo la bocca da molto tempo prima...».
Ricordato questo, trovo sconcertante l’opinione di Andrea che «la strategia della tensione ebbe un certo ruolo nel precipitare il Paese negli anni di piombo». La strategia della tensione e delle stragi segnò un mutamento sconvolgente nella temperie umana e civile dell’Italia, nel nostro stato d’animo e nel nostro orizzonte politico. Solo alcuni di noi – quasi per una deformazione psicologica – continuano a seguire quello che si dice, settimana dietro settimana, 35 anni dopo!, al processo bresciano su piazza della Loggia: autopsia delle colpe dello Stato nelle stragi, agghiacciante quanto sfinita. E comunque, per allora e per oggi, penso che qualunque delitto privato sia incomparabile col delitto commesso da chi ha il monopolio pubblico della forza.
Andrea Casalegno ha raccontato in un libro l’assassinio di suo padre e una storia di famiglia piena di dolore. Mi dispiace molto, e mi dispiace il sentimento che leggo nelle sue parole.
Quando Carlo Casalegno fu assassinato, ne provai rabbia e pena.
Anni fa scrissi ad Andrea per ricordare un episodio: «Una volta – nel 1976’ ritenni che tuo padre, in un commento, avesse ingiustamente addebitato a Lotta Continua il favoreggiamento verso scelte armate clandestine. Io reagii prendendo il telefono – ero a Roma – e chiamando tuo padre, col quale ebbi una conversazione vivace e aspra, nella quale però fu reciproco il riconoscimento della sincerità e forza delle convinzioni rispettive. (Forse, nelle parole di apprezzamento che tuo padre mi rivolse, c’era soprattutto il riflesso della sua sollecitudine e rispetto per te)». Quanto a chi in quegli anni passò la linea, Andrea tiene a ripetere che si può diventare ex di qualunque cosa, ma un assassino rimane per sempre un assassino. Io non lo penso: penso che ciascuno possa cambiare, e che anche un assassino possa diventare una persona che ha commesso un assassinio. Che non solo il calendario cristiano, ma la nostra società dimostri largamente, per fortuna, che questo avviene.
Adriano Sofri