Michel Foucault, Il Sole 24 Ore, 1/11/2009, 1 novembre 2009
ANTOLOGIA DEI POCO DI BUONO
Questo non è un libro di storia. L’unico criterio che ho seguito e che ha orientato la scelta è stato ilmiogusto,ilmiopiacere, un’emozione, il riso, la sorpresa, un certo sgomento o qualche altro sentimento di cui mi sarebbe forse difficile giustificare l’intensità, ora che è passato il momento della prima scoperta.
un’antologia di esistenze...
Credo proprio che l’idea mi sia venuta un giorno in cui leggevo alla Bibliothèque Nationale un registro d’internamento redatto nei primi anni del Settecento, e in particolare dalla lettura delle due note che riporto.
Mathurin Milan, messo nell’ospedale di Charenton il 31 agosto 1707: «La sua pazzia è sempre stata di nascondersi alla famiglia, di condurre in campagna una vita oscura, di subire dei processi, di concedere dei prestiti a usura e a fondo perduto, di portare a spasso il suo povero spirito per strade sconosciute, e di credersi capace delle imprese più grandi».
Jean Antoine Touzard, rinchiuso nel castello di Bicêtre il 21 aprile 1701: «Francescano apostata, sedizioso, capace dei peggiori crimini, sodomita, ateo, se lo si può essere; è un vero mostro d’abominio che sarebbe più conveniente soffocare che lasciar libero».
Sarei in imbarazzo a dire quel che ho provato esattamente quando ho letto questi frammenti e molti altri analoghi: forse una di quelle impressioni di cui si dice che sono «fisiche», come se potessero essercene altre. Confesso che questi «racconti» che riemergevano all’improvviso, dopo aver attraversato due secoli e mezzo di silenzio, hanno scosso in me più fibre di quante ne solleciti quella che normalmente chiamiamo letteratura, senza che io possa ancora oggi dire se mi ha commosso maggiormente la bellezza dello stile classico, drappeggiato in poche frasi attorno a personaggi miserabili, o invece gli eccessi, la mescolanza di oscura ostinazione e di scelleratezza di queste vite, di cui si percepisce, sotto parole lisce come pietra, la disfatta e l’accanimento...
Rispetto a una grande raccolta dell’infamia, che ne riunisse le tracce rinvenendole un po’ dovunque e in tutte le epoche, mi rendo conto benissimo che la scelta operata è meschina, ristretta, un po’ monotona. Si tratta di documenti che appartengono tutti più o meno allo stesso centinaio d’anni, 1660-1760, e che provengono dalla stessa fonte: gli archivi degli internamenti, della polizia, delle suppliche al re e delle lettres de cachet. Supponiamo che si tratti di un primo volume e che La vita degli uomini infami possa estendersi ad altre epoche e ad altri luoghi.
Questi testi del Sei-Settecento (soprattutto se li si confronta con quella che sarà in seguito la piattezza dei documenti amministrativi e polizieschi) hanno una loro forza, rivelano nelle pieghe di una frase uno splendore, una violenza che smentisce, almeno ai nostri occhi, la piccolezza del singolo caso o la meschinità sordida delle intenzioni. Le vite più miserabili vi sono descritte con le imprecazioni o l’enfasi che sembrano convenire a quelle più tragiche. Effetto comico certamente; c’è qualcosa di derisorio nel convocare tutto il potere delle parole e, attraverso di esse, la sovranità del cielo e della terra su disordini insignificanti o sventure così comuni: «Oppresso sotto il peso di un dolore insopportabile, Duchesne, commesso, osa con umile e rispettosa fiducia gettarsi ai piedi di Vostra Maestà per implorare la sua giustizia contro la più malvagia delle donne... Quale speranza può mai concepire lo sventurato, che ridotto allo stremo, fa ricorso oggi a Vostra Maestà, dopo aver esaurito tutte le vie, dalla mitezza alle rimostranze, alle blandizie, per ricondurre al proprio dovere una donna priva di ogni sentimento, di religione, d’onore e d’onestà, e perfino d’umanità? Tale è, Sire, lo stato dell’infelice che osa far risuonare la sua voce supplichevole all’orecchio di Vostra Maestà».
O ancora di una madre abbandonata che invoca l’arresto del marito in nome dei quattro figli «che non hanno nulla da attendersi dal proprio padre se non un esempio terribile degli effetti del disordine. La vostra giustizia, Monsignore, risparmierà a loro un così disonorevole insegnamento, e a me e alla mia famiglia l’obbrobrio e l’infamia, e metterà un cattivo cittadino in condizione di non poter più recare alcun torto alla società alla quale egli può soltanto nuocere».
Si potrà forse ridere, ma una cosa non bisogna dimenticare: a questa retorica che è magniloquente solo per la piccolezza delle cose cui si applica, il potere risponde in termini che non paiono affatto più misurati; con una differenza tuttavia, che nelle sue parole balena il lampo delle decisioni; e la loro solennità può essere autorizzata, se non dall’importanza di quel che puniscono, per lo meno dal rigore del castigo che somministrano. Se si imprigiona una certa indovina, è perché «pochi sono i crimini che non ha commesso e di cui non sia capace. Cosicché è altrettanto giusto che caritatevole sbarazzare senza indugio la gente dalla presenza di una donna tanto pericolosa, che la inganna, deruba e scandalizza impunemente da tanti anni».
Oppure, a proposito di un giovane scapestrato, figlio malvagio e dissoluto: « un mostro di libertinaggio e d’empietà... rotto a tutti i vizi: farabutto, indisciplinato, impetuoso, violento, capace d’attentare deliberatamente alla vita del proprio padre... sempre in combutta con prostitute di infimo ordine. Quando gli si contestano le sue malefatte e sregolatezze non ha la benché minima reazione; risponde sempre con un sorriso da scellerato che mostra quanto egli sia incallito e fa capire come sia incurabile».
Alla minima stravaganza si è già nell’abominevole, o almeno nel discorso dell’invettiva e dell’esecrazione. Donne scostumate e figli ribelli che non impallidirebbero accanto a Nerone o a Rodoguna. Il discorso del potere nell’età classica, così come il discorso che a esso si rivolge, genera mostri. Perché questo teatro così enfatico del quotidiano? Il cristianesimo aveva in gran parte organizzato attorno alla confessione la sua conquista del potere sulla vita ordinaria: un obbligo di far passare regolarmente al vaglio del linguaggio il mondo minuscolo di tutti i giorni, le colpe banali, gli errori più impercettibili e persino il gioco oscuro dei pensieri, delle intenzioni e dei desideri; un rituale di confessione in cui colui che parla è al tempo stesso colui di cui si parla; una cancellazione della cosa detta mediante la sua stessa enunciazione, ma anche accrescimento della confessione stessa, che deve restare segreta, non lasciare dietro di sé altra traccia che il pentimento e le opere di penitenza. L’Occidente cristiano ha inventato questa stupefacente costrizione, che ha imposto a chiunque di dire tutto per cancellare tutto, di formulare finanche la più piccola mancanza in un mormorio ininterrotto, accanito, esaustivo, cui nulla doveva sfuggire, ma che non doveva sopravvivere a se stesso neppure un istante...
Ma a partire da un momento che si può situare alla fine del Seicento, questo meccanismo è stato inquadrato e superato da un altro, il cui funzionamento era molto diverso. Disposizione amministrativa, non più religiosa; meccanismo di registrazione, non più di perdono. L’obiettivo era tuttavia lo stesso. Almeno in parte: messa in discorso del quotidiano, ricognizione dell’universo infimo delle irregolarità e dei disordini senza importanza. Ma la confessione non vi svolge più il ruolo eminente che il cristianesimo le aveva riservato. Per tale incasellamento si utilizzano, sistematicamente, procedimenti antichi, ma fino ad allora localizzati: la denuncia, la querela, l’inchiesta, il rapporto di polizia, la delazione, l’interrogatorio... La voce unica, istantanea e senza traccia della confessione penitenziale, che cancellava il male cancellandosi essa stessa, è sostituita ormai da una molteplicità di voci, che si depositano in un’enorme massa documentaria e costituiscono così una sorta di memoria, crescente e incessante, di tutti i mali del mondo.