Eugenio Occorsio,Affari e finanza 2/11/2009, 2 novembre 2009
LE IMPRESE ALLA VANDEA DELL’IRAP
I toni sono da guerra di religione. «Questa non è una tassa, è un furto che incentiva solo gli italiani ad andarsene a investire all’estero», tuona Peter Thun, industriale di Bolzano, settore degli articoli da regalo. «Giù le mani da questa tassa, se verrà manomessa le regioni non saranno più in grado di garantire l’assistenza sanitaria universale che è uno dei valori fondanti del paese e va salvata a tutti i costi», risponde con altrettanta veemenza Oriano Giovanelli, presidente della Lega Autonomie, 2.500 enti locali associati. La battaglia dell’Irap è appena cominciata. Sembrava solo una delle tante esternazioni dal sapore demagogico quella di Silvio Berlusconi, quando ha proclamato giovedì 22 ottobre all’assemblea della Cna "Aboliremo l’Irap". Invece, per quanto ut solitum ridimensionata, emendata, corretta, quella dichiarazione ha avuto l’effetto del detonatore di una guerra furibonda. Gli imprenditori, guidati dalla presidente Emma Marcegaglia, non hanno perso l’occasione per ricordare che la fiscalità è eccessiva e va benissimo cominciare con il taglio dell’Irap, una delle tasse più controverse da quando è nata a fine 1997, tanto che di essa si è già occupata la magistratura in ogni grado compresa la Corte Costituzionale, e che proprio in queste settimane è in corso il rimborso del 10% degli anni fra il 2004 e il 2007 per una serie di imprese che hanno fatto ricorso e si sono viste in parte dar ragione. «Non possiamo neanche chiamarla tassa, è un vero costo in più per la conduzione di un’azienda», attacca Federico Marescotti, a capo della Simionato di Milano che dal 1963 produce macchine di pesatura e confezionamento, 30 dipendenti e 10 milioni di fatturato. « difficilmente spiegabile e sostenibile in un momento di crisi, un aggravio letale per la competizione all’estero». E Francesco Montanari, amministratore delegato del Dermal Institute di Bologna, 300 addetti e 19 milioni di fatturato, saluta con entusiasmo l’ipotesi di taglio: «Credo davvero che possa servire ad uscire da un blocco che condiziona pesantemente gli investimenti».
Gli imprenditori argomentano in diversi modi il loro sostegno alla cancellazione o più realisticamente alla riduzione (il dibattito in Parlamento ripartirà questa settimana). Un taglio dell’Irap permetterebbe di alleggerire il costo del lavoro e «sarebbe l’occasione per dare finalmente qualcosa ai lavoratori», sostiene Franco Bernardi, titolare della Cameltech di Casale Monferrato, 26 dipendenti e 6 milioni di fatturato. «Purché venga defiscalizzato, perché se devono poi pagarci le tasse si ricomincia tutto da capo». Non meno agguerrito è Paolo Galassi, presidente della Confapi (60 mila imprese associate con un milione e mezzo di addetti): «Era tempo che il governo prendesse coscienza che iniziative del genere non si possono procrastinare. L’Irap è la più ingiusta, la più iniqua, la peggio congegnata delle tasse. E questo in un paese in cui il carico fiscale arriva al 70%».
Tanto accanimento si scatena soprattutto contro una delle due voci di cui si alimenta l’Irap, cioè il numero dei dipendenti indipendentemente dagli utili (un’altra parte è calcolata sugli interessi passivi dei prestiti che si accendono). «Che senso ha?», chiede Galassi. «Un’azienda con 160 dipendenti che fattura 40 milioni ma quell’anno ha un utile di non più di 100mila euro, ne paga 300mila di Irap. E se va in perdita paga lo stesso». Certo, c’è il sospetto «che la ratio della norma sia stata la preoccupazione dell’allora ministro Visco di colpire una voce certa del bilancio come i dipendenti per prevenire l’evasione», commenta Antonio Rosati, economista «keynesiano non pentito», assessore al Bilancio della Provincia di Roma. «Tanti artigiani e operai che hanno fatto negli anni ”80 e ”90 il salto di qualità, si sono messi in proprio e hanno assunto qualche assistente, si sono trovati di colpo penalizzati». Peraltro anche sull’altra voce dell’Irap, gli oneri finanziari, non mancano le critiche: «La congiuntura di oggi, con la debolezza della domanda, è tremenda», argomenta Salvatore Liso, direttore amministrativo dell’azienda di famiglia Viniltex di Andria, da trent’anni nel settore pelle con 35 dipendenti. «Ci sono aziende che hanno perso il 3040% di fatturato, e non sono in grado di far fronte agli impegni con le banche, anzi spesso sono costrette ad indebitarsi ulteriormente. E su questo devono pagare una tassa, è assurdo. E chi deve investire è scoraggiato dal farlo perché sa che non solo dovrà sudare sette camice e pagare caro il denaro, ma su di questo dovrà poi pagare una nuova odiosissima tassa». Ci sono settori in cui gli investimenti sono più urgenti: «Noi non possiamo perdere il passo con l’innovazione afferma Michele Balbi, presidente di Teorema, società It di Trieste e nel 2010 e 2011 dovremo essere in grado di impegnare più risorse nell’R&D altrimenti i paesi emergenti ci scavalcano».
Il problema fondamentale resta però quello richiamato da Giovanelli all’inizio: l’Irap, imposta regionale sulle attività produttive, finanzia il 60% dei servizi regionalizzati del Ssn. così dall’inizio, da quando la tassa nacque in sostituzione di sette imposte precedenti tra le quali l’Ilor e la "tassa della salute". «In teoria è un valido modello di responsabilizzazione delle regioni perché mette a confronto diretto sotto gli occhi dei cittadini una capacità riscossiva con un servizio offerto», spiega Fabio Amatucci, responsabile dell’area strategie del CergasBocconi che ha appena presentato un rapporto sulla finanza locale realizzato con Unicredit e Lega Autonomie. «Bisognerà vedere in che misura le regioni saranno reintegrate nelle loro entrate. Il pericolo è che mentre da un lato si va verso il federalismo fiscale dall’altro si accentri la contabilità cancellando le imposte di pertinenza diretta di regioni ed enti locali, com’è successo con l’Ici». Il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, presidente dell’Anci, è più esplicito: «Mi devono spiegare perché quando si pensa ad un taglio delle tasse, vengono subito fuori le tasse di pertinenza locale». La verità, dice Fabrizio Pezzani, docente di programmazione della P.A. alla SdaBocconi è che «si colpisce nel mucchio della fiscalità perché non esiste un vero controllo delle voci di spesa di ogni singola amministrazione. Appena si vede la possibilità, si taglia qualcosa. E si combinano pasticci».Ma a dire il vero, se Domenico Intini, amministratore delegato di Bitolea, 135 milioni di fatturato e 180 dipendenti nella chimica ecologica in provincia di Pavia, insiste che «più soldi in cassa alle aziende significano maggiori investimenti in ricerca, sviluppo e applicazione di nuove tecnologie per competere sui mercati», non tutti gli imprenditori sono partiti lancia in resta. Per motivi vari, a partire dallo scetticismo: «Non vorrei che questo tanto sbandierato taglio fosse un’operazione di facciata», dice Pier Angelo Masselli, titolare della Kerself, 400 milioni di fatturato nei pannelli fotovoltaici a Reggio Emilia. «Senta, io ho 400 dipendenti, può immaginare che festa farei se mi tagliassero l’Irap. Ma ho tanta paura che quello che ci tolgono da una parte, vadano a riprenderselo da qualche altra. Oppure che vada a finire come con la Robin tax che ha avuto il solo effetto di far innervosire le banche che ora ci fanno pagare di più il denaro».
E c’è infine chi ha un "doppio interesse" (non un conflitto) nella partita, come Sergio Dompè, presidente dell’azienda di famiglia nata settant’anni fa, 850 dipendenti («sui quali pago un’Irap pazzesca») oltre che della Farmindustria (70mila dipendenti in totale): «L’Irap attiene al sistema sanitario, che in Italia è ancora un gioiello tanto che Obama si sta giocando la reputazione pur di imitarlo. Ora è stato raggiunto un faticoso equilibrio: certo, ci sono sprechi, disfunzioni di ogni genere, ma smantellarlo lasciandolo senza risorse sarebbe una follia. Anche perché, almeno per la parte che ci riguarda, quella farmaceutica, riusciamo a tenere i prezzi del 30% più bassi della media europea e del 50 su quella americana. Devastare il tutto sarebbe imperdonabile». C’è un altro aspetto ancora: «Semmai bisogna chiedersi se non sia il caso di studiare un sistema fiscale a parte per i lavoratori della ricerca, visto che producono un bene di utilità sociale per il paese intero».
E così torniamo all’invettiva iniziale di Giovanelli: se proprio si deve ridurre le tasse, operazione ovviamente benedetta da chiunque e che avrebbe un indubbio effetto prociclico verso la ripresa, bisogna fare attenzione a non ridurre nel frattempo anche l’efficacia del sistema "universale" delle cure sanitarie per i cittadini.