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 2009  novembre 02 Lunedì calendario

ALDA MERINI, LA POETESSA DEI NAVIGLI CHE CANTO’ I POVERI, L’AMORE E L’INFERNO


«Io nacqui destinata a soffrire. Mi auguravo di morire. Ma la vita fu feroce: mi lasciò sopravvivere». Visto tutto quel che ha patito, Alda Merini pensava ormai di potere (dovere) resistere in eterno. Invece la morte l’ha raggiunta ieri, a 78 anni, nella sua Milano.

Alda Merini ha vissuto una vita elevata alla seconda, alla terza, alla quarta: perché la sua mente molti­plicava, ingigantiva, deformava ciò che agli altri sarebbe sembrato uni­co e normale, vedeva minacce, incur­sioni, violenze, pedinamenti ovun­que, e questo le rendeva tutto angoscio­so; ma per fortuna ogni tanto vedeva an­che dolcezze e amori che c’erano e non c’erano, il che le regalava una provvisoria allegria. Quando si parla della Merini, co­me quando si parla di Dino Campana o di Amelia Rosselli, si pensa subito alla follia: una ferita sempre aperta che ha ingoiato in sé una vita terribile, con lunghi periodi negli ospedali psichiatrici, e una fantasia impetuosa che ha prodotto una mole enorme di testi poetici e in prosa. Maria Corti, che fu uno dei suoi angeli custodi, la ricorda «ragazzetta» alla fine degli anni 40, nata in una famiglia milanese con un padre assicuratore, una sorella maggiore e un fratello minore, studentessa nelle scuole professionali, respinta in italiano quando tenta l’ammissione al Liceo Man­zoni, dedita al pianoforte e quindicenne poetessa in erba. Fu una cugina di Ada Ne­gri a fare avere le sue prime prove poeti­che ad Angelo Romanò, che le passò a Giacinto Spagnoletti, il suo scopritore.

Nel ”47, quando a Milano frequenta la Corti, Luciano Erba, Davide Turoldo e so­prattutto Giorgio Manganelli, la sua men­te per la prima volta si annebbia. Seguono l’internamento a Villa Turro per un mese, le visite da Fornari, da Musatti e da Clivio, le surreali passeggiate nella Milano post­bellica con Manganelli che la esortava a giocarsi il destino nella scrittura. Intanto, il suo nome entra in una importante anto­logia curata da Spagnoletti per Guanda. Ma ben presto, nel 1950, l’amico più stret­to, Giorgio, lascia Milano. Per circa tre an­ni Alda frequenta Salvatore Quasimodo, a proposito del quale ricorderà in versi un reale o presunto rapporto sentimentale. Nel ”53 il matrimonio con Ettore Carniti, proprietario di alcune panetterie milane­si. Il primo volume di versi esce nello stes­so anno da Schwarz: La presenza di Orfeo.

Pasolini ne rimane impressionato, cita Campana e Rilke. Seguono due nuove rac­colte in soli due anni (Paura di Dio e Noz­ze romane), nasce la prima figlia, Emanue­la. Nel ”65 il tunnel, l’internamento al Pao­lo Pini di Milano che durerà fino al ”79 con alcuni ritorni in famiglia, da cui nascono altre tre figlie. La vita di Alda si spezza, co­sì come la sua poesia. Ci sarà solo un pri­ma e un dopo, in mezzo il «dolore inuti­le », il silenzio raccontato a posteriori nel­le bellissime prose de L’altra verità. Dia­rio di una diversa (Scheiwiller 1986), «ri­cognizione, per epifanie, deliri, nenie, can­zoni, disvelamenti e apparizioni, di uno spazio – non un luogo – in cui... irrom­pe il naturale inferno e il naturale lumino­so dell’essere umano» (parole di Manga­nelli). E poi nei lancinanti flash narrativi di Delirio amoroso (il Melangolo 1989), che la avvicineranno (grazie anche a una recensione di Raboni sul Corriere) al gran­de pubblico.

Ma neanche il dopo sarà facile. Le poe­sie sgorgano anche per ragioni terapeuti­che, sono centinaia, migliaia. Molte ven­gono scritte su fogli sparsi, approntate sul momento, con irruenza e immedia­tezza, dettate al telefono agli amici. Toc­cherà ancora a Maria Corti scegliere nel­l’abbondanza: ne viene fuori La Terra Santa e altre poesie (1984). Un continuo rincorrersi tra erotico e mistico, tra concretezza sensuale e astrazione visionaria, tra dannazione e oracolare ricerca dell’assoluto, tra felicità originaria e dolore («la vera passione») e fatica di vivere: il contrasto insanabile tra luce e tenebre si rivela, sulla pagina, con un nitore para­dossale come se tutto il «disordine psico­logico » dell’autrice, il suo tumulto esi­stenziale trovassero soluzione solo nei versi («mi sento sana di poesia», dice­va). Turbolenta eccitazione e tentativo quasi estatico di pacificarsi con se stessi e con il mondo (per «una colpa non com­messa ») sono due tensioni costanti nella poesia di Alda, e da questa compresenza nasce la vertigine del lettore comune, sbigottito di fronte alla libertà e alla faci­lità di versi usciti dall’inferno.

Dopo la morte di Carniti, nell’81, Alda non vuole stare sola nella sua casa sul Na­viglio.

Affitta una camera al pittore Char­les, conosce un poeta tarantino, Michele Pierri, che sposerà nell’83. Da Taranto, do­ve si stabilisce, ogni tanto sale con Miche­le a Milano. «Era una coppia fabulosa – scrive la Corti – che se ti veniva a trovare ti lasciava nell’aria il senso di un’epifania: avvolta lei in una illusione di felicità, lui esile vecchio dall’ilare ironia...». Altre rac­colte. Ma la poesia non basta, e Alda non ha pace: ancora un ospedale psichiatrico, poi il ritorno a Milano, dove ritrova i vec­chi compagni di strada, cui si aggiungo­no molti disperati del suo quartiere e nuo­vi amici generosi come Ambrogio Borsa­ni (che l’ha assistita negli ultimi anni e che ha curato il libro in uscita tra pochi giorni da Einaudi , Il carnevale della cro­ce) e Marina Bignotti, della Scheiwiller.

La vita in Porta Ticinese (due locali quasi inabitabili, affastellati di vecchi og­getti, carte e cartacce, portacenere mai svuotati, esalazioni), tra assistenti sociali e visite ambulatoriali, forse non è più l’in­ferno di un tempo: arriva un amore miti­co, con il clochard Titano («quando gli facevo il bagno, la sera, la vasca diventa­va nera di terra e di smog, ma una volta asciugato il suo corpo era quello di un angelo»), la consacrazione definitiva con Testamento (Crocetti) , che raccoglie una scelta di testi dal ”47 all’88 (a cura di Raboni), poi il primo libro da Einaudi (Vuoto d’amore 1991) , tantissime plaquettes minori, aforismi, raccontini, ricordi, presentazioni. Arriva persino il Costanzo Show , gli applausi televisivi, ar­riva la pensione Bacchelli, voluta soprat­tutto da Paolo Volponi e Luigi Manconi.

Alda diventa una scrittrice di culto, le sue serate pubbliche sono affollatissime. In un video pubblicato da Einaudi la cele­brano Celentano, Vecchioni, Dalla, Nan­cy Brilli. Alda Merini era eccessiva in tut­to e la sua follia muoveva sentimenti ec­cessivi. Lei ci giocava volentieri. Anche con il gusto dello scandalo e della provo­cazione, come quando si fece fotografa­re seminuda per un settimanale, i capelli ben curati, le unghie laccate. Nei mo­menti peggiori si sentiva ancora perse­guitata: dal portinaio, persino dalla ma­fia, dagli editori. Nelle ultime estati si sentiva sola. Continuava a scrivere for­sennatamente: «Ho il colon ustionato di versi». Con la sua voce mista di catrame e disperazione, telefonava ai giornali per accusare lo strazio di una città che di­mentica i vecchi e i malati. D’inverno, l’inferno era più tollerabile: «Che cosa mi manca? Mi mancherebbe tanto di mo­rire, perché io l’inferno della vita me lo sono goduto tutto». Fino agli ultimi gior­ni, quando in ospedale, seduta sul letto tra un rantolo e un tiro di sigaretta, can­tava i versi di «Porta romana», gli occhi fissi sulle quattro figlie: «La gioventù ti lascia, la mamma muore, la mamma muore, la mamma muore...».