Mario Baudino, La stampa 2/11/2009, 2 novembre 2009
ALDA MERINI SBERLE E POESIE
Quando, alla fine degli Anni 90, le fu conferita la laurea honoris causa dall’Università di Messina, il prof. Antonino Pennisi iniziò la sua laudatio spiegando che un anno prima una studentessa gli aveva chiesto un po’ impaurita la tesi «su una poetessa che aveva visto in televisione». Era Alda Merini, e lui fu perfettamente d’accordo, perché sapeva bene che prima della tv c’era una lunga storia sconosciuta al grande pubblico. La tv aveva fatto di quel personaggio così inconsueto, così attraversato dalla follia e proteso quasi selvaggiamente verso tutto ciò che è vita, l’amore in primo luogo, un’icona mediatica. Da allora, da quando Maurizio Costanzo aveva preso a invitarla al suo talk show, rappresentò l’unico caso di poeta italiano che vendesse anche ventimila copie l’anno.
Alda Merini si è spenta ieri all’ospedale San Paolo di Milano, uccisa da un tumore, fumando le sue sigarette fino all’ultimo, a letto, incurante dei divieti. Aveva 78 anni. Come scrive in una poesia molto celebre, pubblicata in Vuoto d’amore (Einaudi 1991), «Sono nata il ventuno a primavera / ma non sapevo che nascere folle, / aprire le zolle / potesse scatenare tempesta». E tempesta fu. Come un Rimbaud italiano, lei, talento precoce, perse tutto ogni volta. Esordì a 16 anni, pubblicò a 22 la prima raccolta e subitò incantò i primi lettori, da Giacinto Spagnoletti, il suo scopritore, a Salvatore Macrì, a Maria Corti. Pasolini si accorse della «ragazzetta milanese» in un articolo del ”54, quando lei già aveva pubblicato il suo primo libro per Scheiwiller, su proposta di Eugenio Montale e Maria Luisa Spaziani. Bocciata all’esame d’ammissione per il Liceo Manzoni, era già qualcosa di più che una promessa. Grande vena, e grande follia: la scoprirono insieme lei e Giorgio Manganelli, il nostro scrittore più lunare, nel corso di un amore agitatissimo, che segnò anche il primo ricovero in ospedale psichiatrico. Di lui diceva: «Fu il mio primo amore, fu grande amore. Era timidissimo, cincischiava, arzigogolava per paura di amare. Oh non era un conquistatore! Io, ogni tanto, gli davo qualche sberla...».
Per il resto, la vita schiaffeggiava lei. Venne Salvatore Quasimodo, cui sono dedicate alcune belle poesie erotiche, vennero due mariti, quattro figlie e altri ricoveri. Vennero vent’anni di silenzio ed emarginazione. Alda Merini scriveva freneticamente su qualsiasi pezzo di carta, nella sua casa al secondo piano sui Navigli, due stanze ricolme d’ogni cosa e di parecchi gatti, in condizioni igieniche discutibili; o al bar Chimera di Laura Alunno, che per anni le riconobbe una brioche e un cappuccino al giorno in segno di omaggio. Era costantemente alla ricerca di denaro, i suoi rapporti con Vanni Scheiwiller, l’editore e amico, erano teneri e tumultuosi.
Ambrogio Borsani, che negli Anni 80 la cercò per la casa editrice Il Melangolo e da allora è diventato il suo curatore (sta per uscire da Einaudi Il carnevale della croce con i testi degli ultimi anni), ricorda come solo dopo il successo televisivo - ma il primo a invitarla fu Nino Castelnuovo che conduceva una trasmissione su Telemontercarlo - e la concessione del vitalizio della legge Bacchelli, la vita per lei si fece un po’ più serena, senza gli scatti d’ira, le grandi furie, le grandi disperazioni sempre in agguato. Era un personaggio di successo, perfino Roberto Vecchioni le dedicò una canzone. Ma non cambiò quanto allo stile: la sola volta che lasciò la casa dei Navigli fu quando, ottenuto il premio Montale Guggenheim, che aveva una borsa molto ricca - 36 milioni di lire - si trasferì all’hotel Certosa di corso San Gottardo, e vi rimase fino a che non finirono i soldi. Donandoli in parte a tutti i barboni che incontrava, e comprando innumerevoli peluche per gli amici.