Raffaello Masci, La stampa 2/11/2009 Gigi Marcucci, L’Unità 2/11/2009, 2 novembre 2009
SUICIDA IN CARCERE LA BLEFARI, BASISTA DEL DELITTO BIAGI (2 ARTICOLI)
La brigatista Diana Blefari Melazzi - condannata per concorso nell’omicidio del giurista Marco Biagi, avvenuto nel marzo del 2002 - si è impiccata nel carcere romano di Rebibbia, annodandosi intorno al collo un cappio fatto con le lenzuola. Era una quarantenne dall’equilibrio psichico fortemente compromesso. Ma era comunque affidata alla custodia dello Stato, e la sua morte ha quindi scosso fortemente anche la politica chiamata a dare risposte sulla tenuta del sistema carcerario.
I fatti dicono che una delle agenti di custodia, quando erano le dieci e mezza dell’altra sera, ha sentito un tonfo sordo provenire dalla cella di Diana Blefari. Quando si è avvicinata ha visto il corpo della detenuta in una postura inequivocabile. Anche se sotto choc ha dato subito l’allarme ma i soccorsi sono stati vani dato le lenzuola erano state strettamente annodate.
La Blefari, ex edicolante, ma discendente da una aristocratica famiglia calabrese, era una donna il cui comportamento poteva presagire qualche gesto avventato. D’altronde già quando i giudici avevano letto la sentenza di primo grado, aveva tentato di spaccare tutto quello che aveva intorno. Negli anni successivi la sua mente aveva manifestato altre volte momenti di fragilità: dopo la furia c’era stata l’astenia totale, seguita da una serie di disturbi alimentari che l’avevano portata prima al rifiuto del cibo poi alla bulimia compulsiva.
Il gup del tribunale di Roma, Pierfrancesco De Angelis, lo scorso aprile, aveva disposto una perizia psichiatrica dopo che la terrorista aveva aggredito, un anno prima, un agente di custodia. L’episodio, secondo i suoi legali, Caterina Calia e Valerio Spigarelli, sarebbe stato uno dei tanti dovuti alle particolari condizioni in cui versava la detenuta dopo la condanna in appello, ma i giudici ritennero che la Blefari fosse nelle condizioni di affrontare un processo. Si stabilì comunque il suo trasferimento al penitenziario psichiatrico di Montelupo Fiorentino, a cui seguì un periodo all’Aquila, quindi a Sollicciano e infine il trasferimento a Rebibbia il 21 ottobre.
Ieri mattina si era diffusa la notizia che fosse in regime di carcere duro (il cosiddetto 41 bis, riservato a mafiosi e ad altri terroristi) ma non era così. Si trovava, tuttavia, in una cella di isolamento e ultimamente, secondo quanto ha riferito il garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, aveva deliberatamente accentuato questa sua condizione di solitudine, rifiutando qualunque contatto con gli altri detenuti e respingendo perfino il cibo. «Era una schizofrenica inabile psichicamente - ha detto Marroni - figlia di una donna affetta dalla stessa malattia e come lei morta suicida». Quando il 27 ottobre i suoi legali le hanno comunicato che la Cassazione aveva confermato l’ergastolo, lei non ha retto l’impatto e ha proceduto, con la lucidità dei disperati, a compiere il gesto che l’altra notte gli agenti hanno dovuto rilevare.
Il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha chiarito che Diana Blefari era «in una situazione carceraria compatibile con le sue condizioni psicofisiche, così come stabilito dall’autorità giudiziaria. E comunque - ha aggiunto - abbiamo già avviato una puntuale e attenta inchiesta amministrativa allo scopo di fare immediatamente luce sull’accaduto».
L’ex sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi (pd) ha ricordato di essersi già interessato a suo tempo (2006) alla situazione della detenuta e di aver sollecitato «l’assegnazione a un regime di alta sorveglianza, teso in particolare a scongiurare tentativi di suicidio». Perché, si è chiesto ieri Manconi, «nulla è stato posto in essere per evitare che Diana Blefari trovasse una morte tanto tragica?». Per intanto il pm di Roma Maria Cristina Palaia ha aperto un fascicolo cosiddetto «modello 45» ossia senza indagati e ha disposto l’autopsia.
LA COMPAGNA MARIA SCORTO’ BIAGI ALLA MORTE-
Per gli investigatori che alla fine la rintracciarono in una villetta sul litorale laziale, è stata per poche settimane un’ombra, l’ultimo dei nuovi brigatisti rimasti in libertà, una pallida copia dei militari giapponesi rimasti alla macchia dopo la sconfitta dell’esercito imperiale. Per i giudici che l’hanno condannata, una killer spietata, in grado di scegliere un un bersaglio «rilevante» quanto «indifeso », «prescindendo da ogni considerazione umanitaria». I suoi difensori tentarono a più riprese di dilatare le smagliature del tessuto accusatorio: sì, l’imputata si era definita una rivoluzionaria, manulla autorizzava a considerarla una brigatista. Gelida esecutrice di una sentenza da anni di piombo o vittima di un colossale equivoco esistenziale e giudiziario? una miltante professionale o unadonnafragile e corrosa dauna malattia mentale che non le lascia scampo? Diana Blefari Melazzi è sicuramente un fotogramma sfocato dell’ultima, fulminea e sanguinosa parabola delle Br- Pcc, il segmento militarista del partito armato. la «compagna Maria», la staffetta che, secondo l’accusa, in una sera di marzo del 2002 segue in bicicletta il giuslavorista Marco Biagi, assicurandosi che finisca dritto nelle mani dei suoi assassini. Non è unamilitante a tempo pieno come Nadia Desdemona Lioce, catturata dopo lo scontro a fuoco in cui rimangono uccisi un poliziotto della Polfer e il brigatista Mario Galesi. Non è una dirigente e nemmeno una reclutatrice, come Cinzia Banelli, la «compagna Sonia», pentitasi dopo l’arresto e diventata madre dietro le sbarre. Fino a quando non scatta la grande retata che porta in cella gli assassini di Massimo D’Antona e Marco Biagi, ”Maria” è una militante part time e non vive in clandestinità. una ragazza dai lineamenti delicati a cui le foto non rendono giustizia. Gira su una moto potente e lavora in un’edicola romana. Frequenta i centri sociali, si considera una rivoluzionaria, ma il suo modello di vita non è quello cupo e penitenziale dei vecchi brigatisti. Vive conun piede in quella che lei considera la storia, ma la vita di ogni giorno per lei non è solo una copertura. In aula, durante il processo per l’omicidio Biagi, le differenze gerarchiche tra le br saltano agli occhi. Nadia Lioce parla soprattutto con Roberto Morandi, tecnico ospedaliero che si è guadagnato i galloni guidando la vespa con cui lui e Mario Galesi sono fuggiti dopo l’omicidio, superando l’esame d’ammissione fra i rivoluzionari a tempo pieno. Blefari e Mezzasalma partecipano ma più che altro recepiscono direttive, vivono ai piani bassi del Partito armato. chiaro che per lei l’ergastolo non è una prospettiva naturale, eventualità che fa parte del bagaglio politico ed esistenziale di unmilitante rivoluzionario. Guarda in silenzio l’orizzonte della galera a vita, ma le fa orrore. Lo si capisce dagli sguardi che scambia in aula con un ex fidanzato, venuto ad assistere al processo. Dopo la sentenza cade in depressione, rifiuta i contatti con tutti,mangia grandi quantità di cibo, poi lo rifiuta. Per gli avvocati nonpuòaffrontare il processo d’appello, è malata di schizofrenia. Per i giudici il suo è un semplice disordine postraumatico, frequente per chi subisce una dura condanna al carcere.