Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  novembre 02 Lunedì calendario

MA DIETRO LE QUINTE SI TRATTA ANCORA


Ha radunato i più importanti rappresentanti dei tagiki sotto una grande tenda alla periferia occidentale di Kabul. Tremila sostenitori, una jirga, cioè un’assemblea tradizionale delle tribù afghane, come l’ha definita lo stesso Abdullah Abdullah, il campione tagiko di queste elezioni afghane, che da prova di democrazia all’occidentale stanno sempre più prendendo la forma di un insanabile scontro etnico. Abdullah ha convocato i suoi e ha detto che ha deciso di ritirarsi dal ballottaggio di sabato prossimo. «Non ci sono le condizione per un voto trasparente», ha detto l’ex ministro degli Esteri, teso, emozionato. «Non è stato facile arrivare a questa conclusione - ha continuato -. Ho provato in tutti i modi a convincere Karzai ad accettare le mie condizioni. Ma non siamo arrivati a niente».
Le condizioni di Abdullah erano soprattutto due: la rimozione di Azizullah Ludin, il potente capo della Commissione elettorale indipendente (Iec), e quella di tre ministri coinvolti nelle frodi del primo turno elettorale. Il presidente non ha ceduto. Ludin è un suo uomo di fiducia. La Commissione è stata un disastro, tra schede comprate, duplicate, seggi fantasma per moltiplicare i consensi, alla fine oltre un milione di voti è risultato fasullo ai controlli dell’altra commissione, quella internazionale (Ecc), che alla fine ha negato al presidente la vittoria al primo turno. I brogli si sono verificati soprattutto al Sud e all’Ovest, le regioni dominate dai pashtun, l’etnia di tutti i sovrani e presidenti afghani (tranne brevi parentesi e il misterioso Babrak Karmal, appoggiato dai russi e accusato di essere in realtà un indù).
A queste condizioni, con questi precedenti, Abdullah si è sentito una vittima sacrificale. Anche se, secondo Hajji Sayed Daud, analista dell’Afghan Media Resource Center di Kabul, «sta cercando ancora di strappare un accordo per un governo di coalizione in extremis, che eviterebbe il ballottaggio». A favore di questa tesi, il fatto che Abdullah non ha invitato i suoi a boicottare le urne. E forse anche il comunicato diffuso dalla missione dell’Onu in Afghanistan (Unama). Il numero uno, Kai Eide - che vede da sempre il ballottaggio come un incubo logistico, un rischio enorme per i suoi uomini - ha tessuto un elogio di Abdullah: «Durante la campagna elettorale ha agito da uomo di Stato. Ha avanzato proposte costruttive che spero vengano incluse nell’agenda politica dell’Afghanistan del futuro».
Quasi un programma per un futura «grande coalizione», che però ha ancora poche ore per nascere. La macchina organizzativa è in moto, a tutto regime, e deciso a andare avanti con la prova elettorale è lo stesso Karzai: «Il processo deve essere completato, il popolo afghano ha il diritto di votare», ha detto il suo portavoce Waheed Omar. Già sabato il segretario di Stato americano Hillary Clinton aveva preannunciato che il ballottaggio si sarebbe tenuto anche in caso di ritiro di Abdullah. Ieri ha ribadito che «il suo ritiro non incide sulla legittimità del voto». Dopo il duro braccio di ferro con Karzai, per convincerlo ad accettare la revisione dei voti e andare al duello finale, rinunciare adesso alla prova democratica sarebbe una beffa.
Sul voto di sabato, più che le proteste dei tagiki sostenitori di Abdullah - che ha invitato i suoi a «restare calmi» -, pesano le minacce dei taleban. Dopo l’assalto a colpi di granate e kalashnikov di mercoledì alla foresteria delle Nazioni Unite, il portavoce Yousouf Ahmadi ha subito commentato la rinuncia dello sfidante di Karzai: «Non ha alcun significato. Per noi non cambia nulla. Non permetteremo che il secondo turno si svolga pacificamente. Riusciremo a far fallire le elezioni». Ieri la polizia ha annunciato trionfalmente di aver arrestato nella capitale sei taleban sospettati di aver appoggiato l’azione che è costata la vita a cinque funzionari dell’Onu. Un successo che non basta certo a tranquillizzare che è determinato ad andare alle urne, sabato, per votare l’ormai candidato unico Hamid Karzai.L’Afghanistan è nel caos, e l’annuncio del ritiro dal ballottaggio di Abdullah Abdullah aggiunge opacità al quadro. La decisione non è stata presa per il motivo sbandierato da Abdullah, ossia la mancanza di garanzie di correttezza, alla base della massiccia frode del primo turno. Piuttosto, è la certezza dello sfidante di non avere alcuna possibilità di farcela ad averlo convinto a lasciare la gara, a sei giorni dall’appuntamento e con il suo nome ancora nelle schede. Su questo concordano sia Ralph Peters, ex militare, scrittore e giornalista, che è molto critico sull’assenza di strategia del governo Obama e propugna un «disimpegno» alla Biden, sia Moises Naim, direttore della rivista di politica internazionale Foreign Policy, secondo il quale per Obama è condizione indispensabile poter dire all’America, prima di ogni annuncio di più truppe, che a Kabul c’è un governo con un grado di legittimità almeno presentabile, anche se non ottimale.
Che cosa c’è dietro la rinuncia al ballottaggio dello sfidante?
«Ha capito che non vinceva. Ma nessuno ancora sa quali condizioni aveva posto a Karzai e a quali ha deciso di annunciare il suo ritiro».
Nei giorni scorsi girava l’ipotesi del governo di unità nazionale con la sua partecipazione...
«Appunto. Potrebbero esserci sviluppi che ancora nessuno può anticipare. solo sicuro che nelle ultime ore, e per i prossimi caldissimi giorni che mancano al ballottaggio di sabato, i contatti sono stati e saranno intensi e il bazar della distribuzione del potere sarà affollatissimo».
Chi ha partecipato a questo «mercato»?
«Intorno ai due protagonisti-avversari ci sono stati sia l’America - dal senatore John Kerry all’inviato speciale della Casa Bianca Richard Holbrooke - sia le voci potenti domestiche, dai governatori delle province ai signori della droga e della guerra».
C’è speranza che le negoziazioni di queste ore portino a un esito positivo? E quale potrà essere?
«Non è stato finora un processo decisionale trasparente. Il risultato lo si vedrà prossimamente, perché Abdullah non uscirà certo dalla scena politica, anche se con l’addio alla sfida non ha più il potere contrattuale che aveva conquistato con il diritto al ballottaggio».
Perché, allora, l’ha fatto?
«Lo capiremo tra qualche tempo, ma sicuramente Abdullah avrà ottenuto qualcosa, e sta ancora trattando per definire la sua posizione futura nel potere afghano».
Quale soluzione conviene agli Stati Uniti?
«L’obbiettivo degli americani è di ridurre la concentrazione del potere che è oggi nelle mani di un presidente corrotto. vero che è chiamato ironicamente «il sindaco di Kabul», invece che «il presidente», proprio per la sua influenza localizzata nel «palazzo» della politica e che non copre l’intero territorio. Ma è pur sempre il più forte.
Che cosa succederà ora delle elezioni, il cui esito è scontato? Si dovranno fare comunque, visto che c’è comunque già il nome di Abdullah sulle schede e potrebbero dare una parvenza di legittimazione ufficiale?
«Non lo so. Quello che so però è che tutti ne farebbero a meno: già la volta precedente l’affluenza era stata ridotta, e poi ci sono i rischi della violenza talebana e le difficoltà logistiche del voto prima e dello spoglio dopo: nelle campagne e nelle montagne bisogna portare i pacchi delle schede con i muli».