Sergio Romano, Corriere della sera 2/11/2009, 2 novembre 2009
LA «MALEDETTA» PROPORZIONALE UNA LEGGE SOTTO PROCESSO
sorta una discussione fra noi compagni che seguiamo le lezioni di storia. Era stato più democratico Francesco Saverio Nitti – capo del governo all’indomani della fine della Grande Guerra’ a introdurre la proporzionale per le elezioni del 1919 oppure aveva ragione Giolitti nel preferire il sistema maggioritario?
Luca Perilli, Brescia
Caro Perilli,
La proporzionale, alla fine della Grande guerra, era il primo punto nell’agenda politica dei socialisti, dei popolari di don Sturzo, di tutti coloro che dicevano di volere rovesciare il detestato regime oligarchico dei notabili per «dare la voce al popolo». Nitti decise di cavalcare la tigre degli umori prevalenti e credette di poterla addomesticare. Ma sopravvalutò la sua capacità di dominare il coro di voci discordanti che si affollavano allora, come oggi, sul palcoscenico della politica italiana. Forse l’uomo che maggiormente assomiglia a Nitti, negli ultimi tempi, è Romano Prodi, anche lui convinto di potere tenere unita, grazie alla sua abilità e alla sua intelligenza, le traballanti coalizioni di cui è stato il capo.
Giolitti, invece, non aveva dubbi e avrebbe certamente evitato, se ne avesse avuto la forza, il cambiamento della legge elettorale. Ma nel 1919 l’«uomo di Dronero» era ancora per molti, nel clima inebriante della vittoria, il simbolo dell’Italia «pantofolaia» che avrebbe preferito starsene in poltrona, accanto al camino, piuttosto che combattere per il completamento dell’unità nazionale. Col passare del tempo il giudizio negativo di Giolitti sulla proporzionale divenne, se possibile, ancora più duramente negativo di quanto fosse stato nel 1919. In un breve libro («Maledetta proporzionale») pubblicato dalla Bibliotheca Albatros nella collana «i libri di libertates », Dario Fertilio ricorda che il 1º gennaio 1923 (Mussolini era presidente del Consiglio da poco più di due mesi) il vecchio uomo politico la definì per l’appunto «maledetta » .
Ma è davvero giusto sostenere che la proporzionale sia stata allora e più tardi una delle principali ragioni dei mali italiani? Fertilio ne è convinto. In un bel pamphlet, scritto con una passione politica che giova allo stile, non esita a sostenere che il migliore dei sistemi elettorali è quello della maggioranza secca (per vincere basta un voto di più) che distingue la democrazia britannica dalla maggior parte delle democrazie europee. Persino il doppio turno, utilizzato in passato anche in Italia e oggi nella V Repubblica francese con un’altissima soglia di sbarramento, presenta, secondo Fertilio, parecchi inconvenienti. I candidati dei piccoli partiti si presentano al primo turno e naturalmente non vincono, ma possono «vendere» i loro voti nell’intervallo fra i due turni assicurandosi vantaggi e compensazioni che garantiranno la loro sopravvivenza. La maggioranza secca, sostiene quindi Fertilio, è la sola che dica con chiarezza chi ha vinto e chi ha perso, chi ha il diritto di governare senza condizionamenti e chi ha il sacrosanto diritto di fare opposizione.
La tesi è seducente, ma preferirei non spingerla fino alle estreme conseguente. Possono esservi circostanze in cui il maggioritario a un turno è troppo brutale. Un sistema elettorale è buono, dopo tutto, anche e soprattutto quando è apprezzato dall’insieme della comunità nazionale, risponde alle sue esigenze, assicura al governo la massima credibilità possibile e non produce effetti destabilizzanti. Che cosa sarebbe accaduto se l’Italia, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, avesse avuto il sistema britannico? La maggioranza secca avrebbe giovato ai due maggiori partiti e noi avremmo assistito per molti anni, probabilmente, a un duello fra democristiani e comunisti, e forse, negli anni del declino della Dc, alla vittoria dei secondi.