Alessandro Piperno, L’espresso, 5 novembre 2009, 5 novembre 2009
ALESSANDRO PIPERNO PER L’ESPRESSO, 5 NOVEMBRE 2009
Insostenibile felicità.
Non so come fa la gente a portare a spasso la felicità con tanta spavalda leggerezza. E tuttavia sospetto che la felicità senza leggerezza sia incompleta. Come nel ritornello di quella canzone di Lionel Ritchie:" That’s why I’m easy, I’m easy like Sunday morning". E’ così che funziona la felicità? Ti fa sentire leggero e spensierato come la domenica mattina? Si dà il caso che detesti le domeniche mattina. E ho sempre avuto un rapporto per lo meno controverso con la felicità. Trovandola molto spesso insostenibile. Ricordo quando una volta, in vacanza con la scuola in Grecia, una ragazza mi disse che trovava i miei occhi davvero espressivi. Era il primo complimento ricevuto da un individuo non consanguineo, per di più di sesso femminile. L’avvenenza della tipa, le recondite motivazioni che l’avevano spinta a pronunciarsi su di me con tale condiscendenza fece di quell’apprezzamento una cosa del tutto diversa dal "come sei bello!" di mia madre. Avrei dovuto sciogliermi di gioia. Invece mi sentivo impacciato, a tu per tu con un sentimento ingestibile. Da un lato stritolato dalla paura di non saperne approfittare, di non riuscire a contenerlo, di lasciarlo scappare troppo in fretta, dall’altro dalla voglia di fuggire. Mi rifugiai in camera. E mi abbandonai al gesto di cui all’epoca avevo bisogno per addormentarmi e per esorcizzare i fantasmi della felicità e dell’infelicità: sbattere la testa sul cuscino a tempo di musica. Credo di aver capito allora che la felicità non faceva per me, e che la ricetta per la serenità (versione diluita e inodore della felicità) doveva prendere esempio da quella raccomandata ai cardiopatici: poco sale nella pasta e, per carità, niente emozioni forti. In "Infanzia, adolescenza e giovinezza" di Lev Tolstoj c’è un capitoletto dedicato alla felicità della prima infanzia. "Beata, beata, irrevocabile epoca dell’infanzia! Com’è possibile non amarne, non accarezzarne i ricordi? Sono ricordi, questi, che mi ridanno freschezza, mi rialzano l’anima, e costituiscono per me la sorgente di tutti i piaceri". Così Tolstoj introduce il tema dell’infanzia. Puntando decisamente sulla beatitudine. Per poi parlarci, dando sfogo alla sua sovraeccitata sensibilità, di ciò che nella vita di un uomo lui ritiene il centro propulsivo di tutte le future felicità: "Senti a un tratto tra sogno e veglia, che una tenera mano ti tocca; al solo contatto, la riconosci, e ancora dormendo, istintivamente, afferri quella mano e forte forte te la pressi alle labbra. Tutti ormani si sono ritirati; un’unica candela arde in salotto, maman aveva detto, pocanzi, che lei stessa m’avrebbe destato, ed è lei, infatti, che è venuta a sedersi sulla poltrona dove dormo io, e con la sua tenera mano fatata m’ha accarezzato i capelli, e proprio all’orecchio mi fa risuonare la cara voce ben nota: "Alzati, cuoricino mio, è ora d’andare a dormire".
Una volta rimasi colpito da un’intervista a Pietro Citati in cui notava che, a dispetto di quel che si dice in giro, il debito di Proust nei riguardi di Tolstoj è molto più significativo di quello nei confronti di Dostoevskij. Il passo tolstoiano appena riportato dà decisamente ragione a Citati. La mano materna che accarezza il figlioletto che si è appena addormentato e il senso di dolcezza che invade lo scrittore nel ricordarlo sembra prefiguarare il più famoso mito proustiano. Il tutto reso ancor più straziante dal fatto che, solo poche pagine dopo, ti imbatti nella morte di quella stessa madre, avvenuta quando il piccolo Lev è alle soglie dell’adolescenza.
Così mi si va chiarendo qualcosa che da sempre intuisco ma che non ho mai saputo esplicitare. E cioè che la felicità in presa diretta è un sentimento troppo lancinante e fugace per poter essere vissuto. Ma esso sembra fatto apposta per essere desiderato o, altrimenti, ricordato. C’è un rapporto diretto tra felicità e morte. Tanto che mi verrebbe da dire che se gli uomini fossero immortali la felicità sarebbe loro preclusa.
Sarà per questo (per terrore della morte) che uno cerca di fuggire la felicità, tenendola a bada con l’esorcismo dell’ironia e del disincanto? E dev’essere anche questa la ragion per cui non ti stanchi di invocarla in letteratura. Come se la letteratura fosse il solo spazio morale in cui la felicità è sostenibile. Lì, sempre a portata di mano, incapace di sfuggirti perchè ormai cristallizzata dal ricordo e trasfigurata dalla nostalgia. Nostalgia. Ecco l’altra parola magica. Che mi fa subito venire in mente il vecchio Nabokov. E quel suo stupefacente libro intitolato "Il dono", in cui a un certo punto il giovane protagonista, emigrato con la forza in una biglia e squallida Berlino, si immerge con la fantasia nel ricordo del padre morto, famoso entomologo, alle prese con una delle sue esplorazioni nel vergine e sterminato cuore dell’Asia centrale: "Come scintillava il sole! La secchezza dell’aria rendeva straordinariamente brusco il contrasto tra luce e ombra: a volte c’erano tali vampate, una tale prolusione di bagliori, che non si riusciva a guardare una roccia o un corso d’acqua, mentre nell’ombra l’oscurità inghiottiva i dettagli, ogni colore viveva di una vita meravigliosamente moltiplicata, e il manto dei cavalli mutava quando entravano nella frescura dei pioppi". Sono un impenitente vizioso collezionista di epifanie di felicità di questo tipo. Le scovo nei libri, nei film, ovunque tranne che nella mia vita. Con il tempo, ho imparato a riconoscerele all’istatnte. Si tratta, per lo più, di iniziazioni di personaggi giovani: che so, l’arrivo a Parigi dell’ambiziosissimo Rastignac nel "Père Goriot" di Balzac. O altrimenti di evocazioni di istanti divorati dal tempo di qualche personaggio ormai invecchiato. Il meraviglioso sonetto in cui Baudelaire ricorda (proprio come Tolstoj, proprio come Proust) la deliziosa intimità infantile con la madre, il cui attacco non a caso suona così: "Non ho mai dimenticato". E allora sempre più mi persuado che non ci sia felictà non compromessa con il tempo, con la nostalgia e con la morte. E che, allo stesso tempo, non sia intrecciata a un’indimenticabile esprienza sensuale: la mano della mamma che carezza il piccolo Tolstoj, il famigerato bacio della buonanotte della "Recherche", l’aria fresca del mattino che carezza il giovane Rastignac. E l’odore del caffè. Sì, l’odore del caffè che s’insinua nella stanza da letto proveniente da una più o meno lontana cucina mi suiscita sempre un sentimento di esultanza. Non ho mai dimenticato la scena de "I Buddenbrook" in cui Thomas Mann descrive, da par suo, il risveglio della giovanissima Tony, una mattina d’estate, ospite, lei figlia di una grande e ricca famiglia, di pescatori: "Fin lassù a quel piano abbastanza alto, dov’erano soltanto camere da letto, saliva l’aroma del caffè. Pareva fosse l’odore caratteristico di quella casetta, e diveniva più intenso man mano che Tony scendeva la scala dal liscio parapetto di legno e avanzava per il corridoio dove s’aprivano il salotto e la sala da pranzo, e l’ufficio del comandante. Fresca e di ottimo umore nel suo abito di picqué bianco, ella uscì sulla veranda". Che posso farci se ogni volta che rileggo questo passo mi devo fermare. Suggestionato dall’odore del caffè. Temo che l’emozione sia ravvivata dal fatto di sapere che Tony sta per innamorarsi per la prima volta nella sua vita, e che la sua famiglia, per ragioni di opportunità sociale, si opporrà a quel matrimonio. Insommma anche in letteratura, soprattutto in letteratura, la felicità per mantenersi intatta non deve correre il rischio di realizzarsi. Deve rimanere allo stato larvale. Promessa non mantenuta. E a proposito di questo, per una specie di suggestione analogica, ripenso alla scena conclusiva de "L’educazione sentimentale" di Flaubert. La vita di Frédéric Moreau è ormai agli sgoccioli. E’ piuttosto vecchio anche se non ancora decrepito. Tutte le cose che potevano andar male gli sono andate male. La donna che lui ha amato in silenzio per tutta la vita, senza mai confessarglielo, gli si è appena concessa, ormai vecchia, e lui, per non sputtanare l’ultima cosa pura della sua vita, non ha potutto fare altro che rifiutarla. Ed ecco che Frédéric si ritrova con Deslauriers, l’amico di sempre, a rievocare i tempi andati. E in particolare la volta in cui avevano fatto visita a un un bordello e Frédéric, pieno di eccitazione e pieno di paura, se l’era svignata: "E’ la cosa migliore che ci sia toccata!", disse Frédéric. "Già, forse è così. La cosa migliore che ci sia toccata", disse Deslauriers". La fuga da un bordello la cosa migliore che ti sia toccata? Perchè no? Molto spesso le felicità più profonde sono legate a istanti casuali, insensati, frivoli ma talmente violenti ed estemporanei che ti suscitano nostalgia anche mentre li stai vivendo. A questo punto non posso non menzionare il più grande esperto mondiale di felicità perdute, l’autorità indiscussa nel ramo fallimenti: Francis Scott Fitzgerald. Non c’è sua pagina, sia quelle scritte quando era un ragazzo di successo sia quelle scritte quando era ormai un uomo disperato, che non trasudi il sentimento che ho provato a descrivere in questo articolo: l’insostenibilità della felicità. Trascrivo una frase che mi sta molto a cuore che Fitzgerald scrisse nell’ottobre del ’37 ricordando l’enorme successo che l’aveva trasfigurato all’inziio degli anni ’20: "Il compenso di un successo molto precoce è la convinzione che la vita sia una faccenda romantica". La vita una faccenda romantica? E’ quel che ti dici quando leggi certi libri, quando ascolti musiche grandiose o quando in tv ti imbatti in un film di Frank Capra...L’importante forse è che tale idea non tracimi, non invada la tua esistenza. Il rischio è di uscirne massacrato.