Paolo Rumiz, la Repubblica 01/11/09, 1 novembre 2009
CAPOLINEA ATLANTIDE
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Guardate Atlantide, l’arcipelago che Platone piazza davanti alle Colonne D’Ercole e che sarebbe stato distrutto da una catastrofe nel giro di un giorno e una notte. Da duemila anni si fantastica sulla reale posizione di quel piccolo continente perduto, non c’è anno che non escano libri con un tentativo di risposta all’enigma. Atlantide? il Sahara, no, è in mezzo ai Sargassi, ma c’è chi dice che sia nel Mediterraneo o addirittura nell’Oceano Indiano. Fabrizio Antonioli, paleoclimatologo dell’Enea ed esploratore di abissi marini, si chiede come mai non ci si arrenda alla spiegazione più semplice, quella di Platone, e cioè il fatto che al largo di Gibilterra «esiste un arcipelago sommerso che potrebbe contenere le città di cui parla il filosofo greco».
Succede che il mare ventimila anni fa era più basso di almeno 25 metri e la calotta flaciale arrivava, nel Nord, fino alla periferia di Udine. Una muraglia bianca che aveva spinto tutti gli animali verso i tropici, trasformandoli in un enorme campo di caccia. Il Golfo Persico era per gran parte senz’acqua e l’Adriatico pure, fino ad Ancona e Spalato. Alberi da frutto sorgevano là dove oggi passano i pescherecci d’altura. E se fosse stato quello – soprattutto il Golfo Persico – il giardino dell’Eden perduto dai cacciatori neaderthaliani poi soppiantati dagli agricoltori? E se la civiltà della Mesopotamia, ci si domanda, fosse nata dall’innalzamento delle acque e dall’arretramento delle popolazioni verso le valli del Tigri e dell’Eufrate, meno ricche ma fertilizzabili con la canalizzazione?
Luigi Piccardi, con un’affascinante zibaldone sul rapporto fra mito e geologia, svela che i poemi epici indiani contengono informazioni straordinarie sull’innalzamento del livello dei mari. Il Mahabarata ambienta alcuni episodi della guerra fra Krishna e Kamsa in territori che oggi sono coperti dal mare. Il Ramayana narra dell’esercito di Rama che raggiunge Ceylon senza uso di navi, e le foto satellitari confermano che a cento metri di profondità una lingua di terra effettivamente esiste tra l’isola e il subcontinente indiano. E che dire del ciclo mitico dell’Edda, centrato sul grande Nord tra Scandinavia e Siberia, dove si parla di una stirpe di giganti che migliaia di anni fa governarono il regno dei ghiacci poi distrutto da un diluvio di piogge e ”fiumi puzzolenti”, probabilmente inquinati da carcasse di animali? Che sono i giganti se non i corpaccioni dei mammuth liberati dal terreno nell’epoca del disgelo?
Esiste un punto dove l’innalzamento dei mari ha prodotto effettivamente un’apocalisse? Sì, rispondono i geofisici americani Walter Pitman e Bill Ryan. lo stretto del Bosforo, i cui fondali sono appena venticinque metri più bassi dell’attuale livello del mare. Allora il Mar Nero era un lago, molto più piccolo e non collegato al Mediterraneo. Ebbene, più o meno settemila anni fa, avvenne il tumultuoso travaso, il Bosforo si trasformò in un’immane cascata da cinquanta miliardi di metri cubi d’acqua al giorno, il nuovo mare si alzò di un metro alla settimana, facendo scappare le popolazioni rivierasche verso il Danubio, il Caucaso e il Medio Oriente.
Prima si pensava che il diluvio biblico fosse una piena eccezionale del Tigri e dell’Eufrate, ma dopo Pitman e Ryan ha vinto la tesi del Mar Nero. I rilevamenti sui fondali confermano tutto. Di sotto, strati di fossili lacustri; di sopra – con una cesura netta databile al 5000 avanti Cristo – conchiglie marine scomposte. Ma la teoria consente anche un collegamento al mito degli Argonauti, la prima spedizione navale dell’antichità, ambientata non a caso in quello che i greci consideravano il mare dei mari, cioè ”Pontos”, la superficie navigabile per eccellenza. Con chi, in molte mitologie mediterranee, si sposa la dea Terra se non con Ponto, il dio del mare? E dove si poteva celebrare questo matrimonio se non nello spazio della più colossale invasione delle acque nella storia recente dell’umanità?
I maremoti sono un’altra questione. La mitologia riporta poco. Persino l’esplosione del vulcano Santorini nell’Egeo, 1400 avanti Cristo, che devastò mezzo Mediterraneo e con un’onda immane contribuì a spazzar via la civiltà minoica, non ha lasciato tracce significative che non siano archeologiche, come i nuraghi sommersi poco prima del Mille avanti Cristo da quello che Sergio Frau definisce un tremendo «schiaffo di Poseidone». Uno dei pochi segni è l’indicazione di un tempio, dedicato allo stesso dio nel Sudest del Peloponneso, a distanza di chilometri dalla costa, a dire fin dove il dio del mare era penetrato in terraferma. Da allora i documenti che parlano di tsunami non si contano. Emanuela Guidoboni dell’Ingv di Bologna, collezionatrice di catastrofi sismiche, mi rovescia montagne di dati. Il 21 luglio 365, Ammiano segnala «horrendi terrores per omnem orbis ambitum» per un’onda che devasta la foce del Nilo, la Sicilia Orientale, la Grecia e la Dalmazia.
E poi l’8 agosto 1303, col mare scoperchiato per miglia e miglia tra la Grecia, l’Egitto e Cipro, e un’onda di trenta metri che insieme al terremoto abbatte minareti al Cairo, copre di sale e rende sterili le terre del delta, risale il Nilo per altri cento chilometri. E l’11 gennaio 1693, che spinge bastimenti per centinaia di metri ai piedi dell’Etna e dell’Aspromonte. Il crollo sottomari- no al largo di Vancouver, 26 gennaio 1700, che devasta la costa ovest del Nordamerica. E che dire di Messina, 1908, dove il grosso delle vittime – sessantamila – fu causato dal mare, non dai crolli per terremoto. Fiumi d’inchiostro sono stati versati per raccontare questi eventi, ma la montagna di documenti non sembra avere aumentato di un briciolo la percezione dei pericoli imminenti. Ancora oggi, in tempo di paura globale, è il mito a lasciare le tracce più profonde.