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 2009  novembre 01 Domenica calendario

VIVERE PER SEMPRE - DUE ARTICOLI (ELENA DUSI E VITO MANCUSO PER LA REPUBBLICA DI DOMENICA 1/11/09)


E se a morire alla fine fosse proprio la morte? Per la matematica la sentenza potrebbe sembrare già scritta. Basta leggere quella curva che punta verso l’alto senza titubanze, indicando come cresce la nostra longevità e assegnando a un uomo di oggi quarant’anni di vita media in più rispetto al 1840: praticamente il doppio.

«Non facciamoci illusioni, prima o poi il passo rallenterà, la mortalità non potrà certo scendere a zero», mettono in guardia gli scienziati realisti. Ma la retta che sembra non volersi fermare mai sta lì, pronta a smentirli. Fino ad arrivare allo studio di The Lancet che a inizio ottobre annunciava: un bambino su due fra quelli nati oggi (ma solo nel mondo sviluppato) raggiungerà i cento anni di età.

Il primo a sottovalutare la caparbietà della vita fu Louis Dublin, esperto di statistiche americano, che nel 1928 stabilì che uomini e donne avrebbero potuto raggiungere i 64,75 anni di vita media. Le sue previsioni sembravano azzardate in un’epoca in cui le aspettative si aggiravano sui cinquantasette anni. Oggi fanno sorridere. Nel 1980 tornarono alla carica le Nazioni Unite, che misero tutta la loro autorevolezza dietro alla nuova stima: ottant’anni. Cinque anni più tardi il limite era già battuto e l’Onu fu costretta ripetutamente a ritoccare i suoi dati. L’ultima scommessa risale al 2000 e parla di ottantacinque anni. Ma è già fallita in paesi come Italia e Giappone in cui le donne hanno un’aspettativa di vita di ottantasei anni.

Il paradosso è che la longevità rappresenta il successo più eclatante della medicina, ma attorno a essa il mistero resta più fitto che mai, tanto che l’invecchiamento stenta perfino a trovare una definizione. Alcuni sostengono che i meccanismi di riparazione del dna col tempo diventino meno efficienti, e nel genoma si accumulino mutazioni pericolose. Altri dicono che sono le estremità dei cromosomi – i telomeri: ai loro scopritori è andato quest’anno il Nobel per la medicina – ad accorciarsi progressivamente dopo che una cellula si è divisa più volte, fino a impedire ulteriori replicazioni e bloccare il ricambio dei tessuti.

Ma se la biologia della specie umana sia incompatibile con l’immortalità – se cioè la morte sia inscritta nella nostra genesi o non possa invece essere evitata con speciali accorgimenti – resta una domanda senza risposta.

Né si comprende come mai cresca in modo spettacolare l’età media, ma non quella massima (il record è di 122 anni per la francese Jeanne Calment). E per questo forse la curva della longevità un giorno comincerà a rallentare o addirittura a scendere, dando ragione agli scienziati realisti e infrangendo il sogno di una mortalità ridotta a zero. Ma
sempre lasciandoci all’oscuro delle forze che la muovono.

Se ad allungarci la vita nell’ultimo secolo e mezzo sono stati igiene, riduzione delle malattie infantili e progressi della medicina, ad accorciarcela in futuro potrebbe essere l’obesità. Nella nebbia del perché un uomo invecchia e muore, i ricercatori infatti sono riusciti ad afferrare un nesso d’acciaio: quello che lega cibo e vita. Non si tratta solo di mangiare sano, aggiungendo alla dieta frutta, verdura o magari una pillola con la più o meno usurpata etichetta antiaging. Alimentazione e consumo energetico si abbracciano a un livello molto più profondo, influenzando la velocità del metabolismo e forse il ritmo del logorio del corpo. Non è un caso che la costellazione dei cosiddetti ”geni della longevità”» individuati finora (quei frammenti di dna spesso presenti negli ultracentenari) abbiano tutti a che fare in un modo o nell’altro con l’utilizzo dei nutrienti per produrre energia nell’organismo. O che l’unico farmaco dimostratosi capace di allungare la vita (più trenta per cento nei topolini di
laboratorio, come ha descritto Nature a luglio) sia la rapamicina, sostanza scoperta per caso nel terreno dell’Isola di Pasqua che influenza la rapidità con cui le cellule crescono e si dividono: quindi proprio la velocità del metabolismo.

A raccogliere la prova del nove è una manciata di individui disposti a ridursi pelle e ossa, tagliando di un terzo l’introito delle calorie raccomandate. In nome della longevità una cinquantina di americani hanno fondato la Calorie Restriction Society e hanno deciso di sottoporsi a un regime prossimo all’inedia, in cambio dell’annullamento di diabete, malattie cardiovascolari e (quasi del tutto) cancro. Il prezzo: dimagrimento estremo, rallentamento del metabolismo, sensazione di freddo, calo di testosterone e libido e perdita della capacità di resistenza nell’attività fisica.

Quella della restrizione calorica è una teoria nata negli anni Trenta. L’unica fra le tecniche di allungamento della vita entrata a pieno diritto nella scienza. In decenni di esperimenti vermetti, mosche, topi, ragni e infine le cugine scimmie (ad agosto Science ha pubblicato i risultati di un esperimento ventennale) hanno ottenuto in laboratorio vite estese di un terzo rispetto alla norma della loro specie. Del desiderio ancestrale di eliminare la morte dal nostro orizzonte parlano due libri appena arrivati in libreria: Una vita senza fine? di Guy
Brown (Raffaello Cortina) e Il sogno dell’eternità di Céline Lafontaine (Medusa).

Se si esce dal perimetro della scienza ufficiale, sono soprattutto i baby boomer sull’orlo della terza età i principali fan di movimenti che rasentano il folclore proponendosi di allontanare la morte o annunciando la sua eliminazione. Non hanno paura di infrangere un tabù della nostra psiche, né se la sentono di sottoporsi ai rigori della restrizione calorica, ma suggeriscono ibernazione o smercio di elisir a base di olio di serpente o minerali del vulcano di Vilcabamba in Ecuador (dove sembra che le persone siano particolarmente
longeve). E sempre a cavallo fra scienza e folclore si muove Aubrey de Grey, del dipartimento di genetica della Cambridge University, convinto che la persona che vivrà mille anni sia già fra noi e che la morte non sarà mai eliminata del tutto, ma colpirà solo i distratti con punture di serpenti o incidenti stradali. Con il ”Methuselah Prize” il visionario dalla barba fino all’ombelico ha lanciato agli scienziati la sfida di creare in laboratorio topi matusalemme o di cancellare le tracce del tempo dal corpo di un animale.

Eppure la sensazione è che non a un guru si debba guardare, ma che la strada per ottenere il ”segreto della salamandra” capace di rigenerarsi in continuazione sia in realtà più vicina. A ritmo costante ormai nei laboratori di tutto il mondo gli scienziati riescono a far tornare una cellula adulta al ruolo di staminale ”bambina”. vero, si tratta di singole cellule. Ma questo regredire agli stadi iniziali della vita non è quello che chiamiamo invertire le lancette
del tempo?

ELENA DUSI

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 del tutto naturale che gli uomini utilizzino la loro intelligenza per cercare di vivere il più a lungo possibile, è a causa della spinta della natura che li costituisce, la medesima che li porta a sentire il desiderio di cibo, di sesso, di conoscenza. L’astrofisica contemporanea ci insegna che la legge cosmica fondamentale è l’espansione, in base alla quale l’Universo è passato da una dimensione tanto piccola da risultare inaccessibile alla mente umana (10-33 centimetri) a una dimensione tanto grande da risultare altrettanto inaccessibile (un diametro di una decina di miliardi di anni luce).

Oggi, inoltre, si sa che l’Universo non solo non decresce la sua espansione ma l’accelera.
E questo ha portato a postulare l’esistenza di una forma di energia diversa da quella conosciuta e per il momento chiamata «oscura». Ora, siccome anche gli uomini sono un frammento di Universo (un frammento meno che minuscolo per quanto riguarda l’essere come energia e materia, ma il più ricco per quanto riguarda l’essere come informazione), essi non possono che riprodurre la legge cosmica fondamentale: per questo essi tendono a espandersi, e l’espansione umana si dice anche come desiderio di vivere più a lungo. Le religioni nascono da qui, dal desiderio di espandersi anche oltre la morte, per realizzare il quale ogni religione ha il suo peculiare percorso. E naturalmente anche la scienza, che oggi nella mente di molti gioca lo stesso ruolo che nel passato aveva la religione, non si sottrae alla ricerca. La pianta dell’immortalità di cui parlava il saggio Utnapištim a Gilgameš nel mito accadico di oltre quattro millenni fa («c’è una pianta che cresce sott’acqua, ha le spine come il rovo, come la rosa; ferirà le tue mani, ma se riuscirai a prenderla, allora nelle tue mani ci sarà ciò che ridà a un uomo la gioventù perduta») è ora oggetto di ricerca in chissà quanti laboratori del mondo.

Come valutare questo fenomeno? Da un punto di vista sociopolitico penso che il progressivo innalzamento dell’età media sia da valutare più che positivamente, perché società più vecchie sono anche società più sagge, più in grado di moderare i conflitti, meno aggressive. Ma la questione più delicata riguarda il singolo, non la società, e consiste nel chiedersi come valutare dal punto di vista etico la tendenza a prolungare la vita fino a infrangere quelli che, fino a oggi, vengono ritenuti i suoi limiti naturali. La questione assume per la teologia una peculiarità tutta sua: non è questo il vertice del peccato di orgoglio da parte dell’uomo? Col prolungare la vita ricorrendo alla tecnica non si giunge a togliere a Dio ciò che contraddistingue l’essenza della sua signoria?

In realtà, se si guarda alla Bibbia, si scopre che Dio si rallegra della lunga vita degli uomini. vero che i numeri biblici vanno sempre presi con le pinze perché spesso dietro le cifre si nascondono significati di altro genere, ma è comunque molto significativo che agli uomini cronologicamente più vicini alla creazione il libro della Genesi attribuisce età mozzafiato: Adamo visse 930 anni, Set 912, Matusalemme 969 (record assoluto), Noè 950. Dopo il diluvio le cose cominciarono a prendere un andamento (noi diremmo) più umano, ma che rimane straordinario: Abramo visse 175 anni, sua moglie Sara 127, Giuseppe 110, Mosè 120.

L’età di Mosè è quella canonica, in quanto Dio aveva detto che «il mio spirito non resterà sempre nell’uomo, perché egli è carne e la sua vita sarà di centoventi anni» (Genesi 6,3). Un traguardo, penso, di cui ognuno di noi si accontenterebbe.

In realtà, mentre ribadisco che i numeri biblici non vanno mai presi alla lettera e tanto meno nel caso concreto, sottolineo altresì che il messaggio biblico fondamentale è la perfetta corrispondenza tra volontà divina e lunga età dell’uomo: Dio vuole che gli uomini vivano a lungo. Il profeta Isaia esprime tale prospettiva quando prefigura la realizzazione delle promesse divine: «Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni, né un vecchio che non giunga alla pienezza dei suoi giorni, poiché il più giovane morirà a cento anni» (Isaia 65,20).

La valutazione etica e teologica della ricerca dell’immortalità deve però proseguire mettendo in rilievo un altro aspetto, il vero e proprio elemento decisivo: per quanto la tecnica possa avere successo, non sarà mai essa che darà all’uomo la pienezza dell’umanità. Perché? Perché la tecnica può agire solo sulla dimensione spazio-temporale dell’essere, e non è qui, per quanto sia importante, che si gioca la peculiarità della vita umana in quanto ”umana”. Non ci sono dubbi che vivere a lungo sia bello, ma non è il vivere a lungo a definire l’essere uomo, bensì la libertà. Il vero uomo è l’uomo libero, libero anche da se stesso e dai suoi interessi immediati, e che per questo è in grado di spendersi a favore del bene e della giustizia, senza temere, quando è il caso, di rischiare per questo la vita fisica. La pienezza dell’umanità non è data materialmente dal numero dei giorni, ma si definisce spiritualmente in base alla qualità etica e spirituale dei giorni vissuti.

Il giudice Rosario Livatino morì a trentotto anni per un agguato mafioso, il teologo Dietrich Bonhoeffer morì impiccato a trentanove anni su ordine di Hitler, Etty Hillesum morì a ventinove anni ad Auschwitz per aver scelto di stare accanto alla sua gente, e sono solo tre esempi di uomini che hanno raggiunto la pienezza della vita nell’impegno per il bene e la giustizia, protagonisti di una vita molto più ricca di chi semplicemente mira a rimanere qui il più a lungo possibile. Nel libro dei Proverbi si legge che «chi pratica la giustizia si procura la vita» (11,19). In realtà Hillesum, Bonhoeffer, Livatino e molti altri la vita la persero a causa
della giustizia. Ma qui non si tratta della vita spazio-temporale, ma di un’altra dimensione della vita, il cui presentimento fece bere il veleno a Socrate con serenità e che il Nuovo Testamento descrive dicendo che in essa «avrà stabile dimora la giustizia» (2 Pietro 3,13).
Vito Mancuso