Francesca Paci, La Stampa, 1/11/2009, 1 novembre 2009
L’EBREO CHE DISSE A GORING: TACI
Quando gli americani lo nominano interprete del processo di Norimberga, Richard Sonnenfeldt ha 22 anni, l’età in cui Rudolf Hess, il più vicino al Führer tra i gerarchi nazisti seduti di fronte a lui sul banco degli imputati, era partito volontario per la Prima Guerra Mondiale arruolandosi nel reggimento List insieme al caporale Adolf Hitler, un oscuro ufficiale dell’esercito tedesco che amava spronare i commilitoni intonando «Deutschland über alles in der Welt». Ma a quel punto Sonnenfeld ha già visto «montagne di cadaveri e migliaia di moribondi» nel lager di Dachau, dove è stato tra i primi a entrare con i soldati alleati il giorno della liberazione, ed è pronto a tradurre l’idioma dei carnefici senza abbassare lo sguardo, unico ebreo ammesso a decifrare la banalità del male nel tribunale della storia.
La vita dell’uomo attraverso cui passarono le ultime parole di Göring, Speer, Hess, comincia nel 1923 nella Berlino della Repubblica di Weimar e si spegne alcuni giorni fa a New York, sua città adottiva cui è dedicata l’autobiografia «Witness to Nuremberg» (Testimone a Norimberga) pubblicata nel 2002. Un cortometraggio in bianco e nero come il Novecento. Negli Anni 30, racconta il «Financial Times», i Sonnenfeldt sono una famiglia benestante, moglie e marito medici, alta borghesia. Ma la storia incalza. A 15 anni Richard capisce che non c’è futuro per gli ebrei nella cittadina sassone di Gardenlegen in cui è cresciuto: due mesi prima della Notte dei Cristalli i genitori lo mandano a studiare nel Regno Unito insieme al fratello Helmut, futuro consigliere del presidente americano Nixon, e partono alla volta degli Stati Uniti. La New Herrilinge School, nel Kent, è un istituto prestigioso, gestito da quaccheri ed ebrei. Ma il giovane Sonnenfeldt è tedesco, un «nemico straniero» cui gli inglesi non concedono sconti d’età: nel 1940 viene caricato a bordo di un incrociatore britannico e deportato in Australia.
Duro destino è l’avere un destino, ammoniva Italo Calvino. Aiutato da un amico ebreo di Melbourne il prigioniero Richard riesce a fuggire e, attraverso Bombay, raggiunge New York giusto in tempo per arruolarsi volontario con le truppe americane e combattere negli anni più cruenti della Seconda Guerra fino allo sbarco in Italia e alla resa della Germania. E’ qui che il generale americano William Donovan, capo dell’Office of Strategic Services, la futura Cia, si accorge del giovane soldato bilingue e lo promuove traduttore: ogni giorno, per almeno sei ore, deve sedere gomito a gomito con i ventun ideatori della soluzione finale, maschere tragiche dietro cui si celano ordinari impiegati dello sterminio.
Fino al faccia a faccia con gli imputati di Norimberga Sonnenfeldt non aveva mai pensato alla dimensione globale dell’Olocausto. «Quello che mi colpiva di più al processo era la loro semplice banalità, la normalità, yes-men intellettualmente mediocri, anelli della catena del male al di fuori della quale non li avresti distinti dalla massa», scrive nella sua autobiografia. Quando domanda a Rudolf Höss, l’ex comandante di Auschwitz, se fosse vero che aveva sterminato tre milioni e mezzo di persone, quello risponde impassibile: «Erano solamente due milioni e mezzo, gli altri morirono di fame o di malattia».
La memoria perdona ma non dimentica. Nella galleria del Terzo Reich è l’ex capo delle SA Hermann Göring l’icona del male di cui Richard Sonnenfeldt ha continuato a parlare fino all’ultimo, l’uomo qualunque, quel che Eichmann aveva rappresentato per Hannah Arendt. Lo chiamava Herr G’rink giocando con il termine tedesco «gering», piccolo, e ripeteva di quella volta che prima d’uccidersi con il cianuro gli aveva confidato: «Fra trent’anni ci saranno statue di me in tutta la Germania». I due avevano preso confidenza durante il processo, quando di fronte alle continue interruzioni del gerarca nazista l’interprete ventiduenne l’aveva zittito: «Taci finché non ho finito di tradurre». Sono le sue parole che restano, quelle di Göring e gli altri fluttuano afone, lost in translation.
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