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 2009  ottobre 29 Giovedì calendario

LA (FORZA) POLITICA DELLA MAFIA


Le riforme giudiziarie della Cina capitalista, le frequentazioni tra stato italiano e mafia, il clima di tensione che sta riportando il nostro paese indietro nel tempo, gli scrittori con la scorta e le toghe senza colore, politico. Tornato dal viaggio in Cina organizzato dall’Istituto di cultura italiano, Giancarlo De Cataldo racconta al Riformista le sue impressioni cinesi e fa il punto storico-giuridico sull’Italia.

Cosa pensa di quanto ha detto il procuratore Grasso sulla trattative tra mafia e parti dello stato, per salvare i ministri?

Non so se la trattativa mirasse a salvare i ministri. Sicuramente c’è stata e la mafia ne ha tratto il dovuto giovamento. D’altronde, rapporti fra settori dello Stato e mafia (e camorra) sono una costante nella storia patria, a partire dal ruolo svolto da picciotti e cumparielli nel Risorgimento: quando un ”uomo d’onore” si affilia, gli si insegna che fra le armi del mafioso ci sono la ”politica” e la ”forza politica”. Con la prima si parla fra ”persone ragionevoli”, la seconda si usa quando l’interlocutore non vuole scendere a patti. Direi che la trattativa è un esempio di uso lungimirante di ”politica”, le stragi di Capaci e di via D’Amelio una tragica dimostrazione della seconda. Sta di fatto che, paradossalmente, gli anni della violenza mafiosa stragista coincisero con uno scatto d’orgoglio della morente Prima Repubblica. Vorrei ricordare i governi Amato e Ciampi, il ruolo del Presidente Scalfaro, le finanziarie terribili di quella stagione, la sensazione di potersi e doversi salvare da un crollo imminente facendo ricorso alle migliori energie del Paese.

Sarà possibile arrivare a una ricostruzione più condivisa di quegli anni, così centrali nella recente storia?

Sulla storia italiana da Tangentopoli ad oggi esistono due versioni: pagina gloriosa di liberazione nazionale poi naufragata nel mare della corruzione e nel risentimento della classe politica, ovvero complotto politico/giudiziario architettato nei salotti ”rossi” e portato a compimento dalle toghe del medesimo colore. Sono due versioni che non ammettono forme di compensazione: o stai da una parte o stai dall’altra. Personalmente, penso che si sia trattato di una grande occasione perduta per aggredire nel profondo i mali endemici dell’Italia. Era, per intenderci, la stagione in cui sulla Salerno-Reggio Calabria si viaggiava veloci e sicuri. E non mi dica che non è un dettaglio emblematico!

La sua narrativa mescola con l’invenzione del romanticismo criminale le verità storiche anche scomode dell’Italia di ieri e di oggi. Opere come ”Romanzo criminale” e ”Nelle mani giuste” sono atti letterari che gettano luci inquietanti sulle ombre della nostra storia. Come i rapporti tra la banda della Magliana e la strage di Bologna. Che cosa pensa di quanto si è detto dopo la scarcerazione di Fioravanti, sulla necessità di trovare piste alternative a quella nera?

Fioravanti ha beneficiato di una legge generale dello Stato (sulla liberazione condizionale) che vige da molti anni. Nessuno scandalo, non è stato ”liberato” perché innocente, ma perché la nostra Costituzione riconosce alla pena anche una funzione di emenda, e dunque dei validi giudici lo hanno riconosciuto meritevole di ritornare a pieno titolo nel consesso civile. Io comprendo benissimo il risentimento delle vittime, ma vorrei sommessamente osservare che delle due l’una: o si accetta l’idea costituzionale della pena o si decide, una volta per tutte, che la famosa ”tolleranza zero” implica la riscrittura della Costituzione, con quel che ne consegue: abolizione delle misure alternative, carcere senza permessi e via dicendo. Considero gli eccessi repressivi, le formule di routine, l’ideologia securitaria nel suo complesso fra le peggiori sciagure che ci sono toccate in sorte negli ultimi anni. Mi dispiace, come uomo e come giudice, che si usino le vittime, il loro giusto dolore, la loro sete di verità come ”teste di ponte” di un disegno che potrebbe esitare in un fosco imbarbarimento della giustizia penale. Io sono un vecchio liberale, sotto questo aspetto: mi hanno insegnato che la giustizia è quel sottile diaframma che si frappone fra il desiderio di vendetta di chi ha subito un torto e l’ansia del responsabile di farla franca. E continuo a crederlo. Quanto, infine, alla strage del 2 agosto: esistono delle sentenze, e vanno rispettate. Se dovessero emergere, dal pozzo senza fondo della storia criminale italiana, altre informazioni sino ad oggi ignote, saranno prese nella dovuta considerazione.

In questi giorni, il pentito Giuffré ha detto che per Provenzano Cosa nostra era ”in buone mani” con l’ascesa di Forza Italia, alla quale bisognava garantire un appoggio elettorale. Ricostruzione verosimile?

Non mi pare opportuno intervenire su un’inchiesta in corso. D’altonde, la mia ipotesi sulla vicenda l’ho già formulata, appunto, e in tempi non sospetti, nel romanzo Nelle mani giuste.

La settimana scorsa, sono tornati a fare capolino in Italia lettere firmate con una stella a cinque punte, minacce di morte a politici e sindacalisti. Episodi che, sommati a gruppi che diffondono odio in rete, suggeriscono un ritratto cupo dell’Italia di oggi. Sono schegge impazzite di un antiquato odio di classe o manovre per gettare nel caos l’Italia?

Attenzione, perché ad alzare i toni finisce che qualcuno poi passa all’azione. Negli anni Settanta il terrorismo rappresentò oggettivamente un fattore di freno delle riforme, un momento di grave arretramento complessivo dell’Italia. Fra i giovani che credevano nella lotta armata (sull’uno e sull’altro fronte) abbondavano infiltrati, provocatori, manipolatori occulti. Il ricorso alla violenza è sempre e comunque da condannare. Ma che l’Italia di oggi sia incupita, incarognita, incattivita, cafona oltre ogni limite non è la suggestione di uno scrittore inacidito, ma la constatazione elementare della nostra realtà quotidiana.

Limitandoci alla violenza verbale, come considera il movimento di Grillo e la politica del vaffanculo? Le uscite di Brunetta contro la sinistra per male che deve andare a morì ammazzata?

Mettetevi per un momento nei panni degli ”antropologicamente diversi”, dei ”criminali”, dei ”parassiti”, dei ”fannulloni”, dei ”bamboccioni” (per citare solo alcuni fra gli epiteti più pittoreschi di cui negli ultimi tempi sono stati gratificati magistati, studenti, pubblici dipendenti, cinematografari, ecc.): se uno non ha davvero una solidissima fede nei principi religiosi, la tentazione di non porgere sempre e comunque l’altra guancia è fortissima! Personalmente, anche quando (è successo davvero) un soi-disant critico mi ha augurato malattie intestinali (ma lo ha fatto in modo meno garbato di come ve lo riferisco) non ho ceduto alla tentazione. Le parolacce mi fanno sorridere nelle barzellette e possono avere un grande valore letterario se adeguatamente sfruttate nel ”dialogato” di un romanzo di strada o in una canzonetta satirica. In politica dovrebbero essere lasciate da parte. Che cosa puoi costruire su un ”vaffa” o sull’insulto come prassi?

Il capo della squadra mobile di Napoli ha dichiarato che la scorta a Saviano non era necessaria. La valutazione di Pisani era tecnica, oggettiva? O animata da un risentimento verso chi è diventato simbolo forse unico della lotta alla camorra?

Il vero problema è che in una democrazia uno scrittore sia sotto scorta: non dimentichiamolo mai!

Da intellettuale di sinistra, come segue le ultime vicende del Pd? La sinistra è nelle giuste mani?
Ahi ahi! Gli intellettuali non scrivono gialli, i giudici non devono avere colore e io non sono iscritto a nessun partito.

Lei è andato in Cina nell’anno in cui ricorrono i 60 della rivoluzione maoista, i 20 della repressione di piazza Tiananmen, i 50 della repressione nel Tibet. Quali suggestioni hanno prevalso?

La sensazione è che episodi cruciali per noialtri, qui in Occidente, come Tiananmen, la rivoluzione culturale, il Tibet lascino del tutto indifferenti non solo i cinesi con i quali ho avuto modo di parlare, ma anche la maggior parte degli europei da lungo tempo là residenti (giornalisti, scrittori, ecc.). Il ”focus” sta completamente da un’altra parte. Nella ricchezza che cresce, nel senso febbrile di un ”balzo in avanti” che non sembra destinato ad arrestarsi, nell’arretramento della povertà a vantaggio di un diffuso benessere... non so quanto questa sensazione sia artificiosa, legata a Pechino e alle altre grandi città (che cosa ne sappiamo veramente delle campagne cinesi, sterminate, così lontane?), ma le cose, piaccia o no, stanno così. I cinesi con cui ho avuto contatti sono orgogliosi del proprio presente, guardano a un futuro che immaginano ancora più frenetico e ricco e sono propensi a considerare ogni tappa della loro storia millenaria, Mao incluso, come anelli di una catena che, fra errori, distorsioni, splendori e miserie, ineluttabilmente condurrà al progresso.

Il progresso è tecnologico o politico?

A Pechino entrano in circolazione 2.000 nuove automobili ogni giorno, il tempo medio di installazione di un impianto wi-fi, dopo richiesta e pagamento, è di due ore (sì, ha letto bene: due ore, da noi qualunque provider ci mette non meno di venti/trenta giorni), in quattro anni, in vista delle Olimpiadi, hanno portato le linee della metropolitana da 3 a 11... L’anniversario del primo ottobre ha comportato una restrizione dell’accesso a Internet e l’oscuramento di molti blog. un prezzo che tutti quelli con i quali ho parlato non considerano nemmeno ”un prezzo”, ma un’ineluttabile necessità. La democrazia, dicono, verrà da sé, e già, comunque, c’è molta più circolazione di idee di un tempo. E sarà, aggiungono, con un sorriso sornione, una democrazia ”nostra”, e voi europei (ti lasciano intendere, senza sottolineature che suonerebbero scortesi) dovrete, prima o poi, imparare a sbarazzarvi dei vostri pregiudizi eurocentrici, e sforzarvi di comprendere il ”nostro” modo di ragionare. Un’altra parte del mondo, appunto.

Sembrano esserci tre forze in campo: il controllo statale post-comunista, l’apertura al capitalismo economico, una crescente richiesta di democrazia. Qual è la predominante?

Esiste una dialettica profonda interna al Partito/Stato/Governo: c’è naturalmente chi propende per un’accelerazione dei processi di democratizzazione e chi frena, pur nell’opinione, comune a tutti, che la democrazia alla fine arriverà. Il problema centrale è e resta l’arretratezza delle campagne. Un esempio: Mao e la Rivoluzione Culturale, che aveva eccitato tanti nostrani giovanotti borghesi, distruggono tutte le istituzioni giuridiche e aboliscono leggi, codici, ecc. Da trent’anni i cinesi, grazie anche alla collaborazione di giuristi italiani, stanno ricostruendo il tessuto legislativo e l’apparato giudiziario, ispirandosi, al contempo, al nostro diritto romano e alla ”common law” anglosassone.

Il risultato?

Il processo procede a rilento nelle campagne, perché ancora lì si nominano giudici improvvisati, mentre nelle città gli standard si evolvono con estrema rapidità. Quanto all’apertura al capitalismo, vale, più di ogni altro discorso, un giro nel centro di Pechino, fra grattacieli edificati dai più grandi architetti europei e asiatici, ristoranti di lusso, fabbriche di design tarocchissimo, tarocco e semi-tarocco, negozi e bar-lounge con insegne in cirillico, hall di grandi alberghi con bellissime escort (eh, sì, dappertutto, ormai!)... una ”nuance” dello scenario urbano occidentale che siamo abituati a immaginare nella Hong Kong di quindici anni fa, dietro la quale spunta immancabile il sorriso ironico e soddisfatto del Gigante (la Cina) oggi convinto di poter metabolizzare la coesistenza di tutte le possibili contraddizioni: il glamour occidentale, l’avanzamento delle campagne, l’introduzione graduale della democrazia, la ricchezza individuale, il Partito/Padre dallo sguardo lungimirante e via dicendo... se c’è una cosa che mi ha colpito è l’enorme orgoglio che tutti vantano del loro presente.