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 2009  ottobre 30 Venerdì calendario

SEI TROPPO NERO PER IL MIO RISTORANTE

("Magari cinesi o marocchini, sì, ma negri no") - Torino. Al telefono non puoi accorgerti della «differenza». Abdoulaye Guitteye è arrivato a Torino dal Mali nel 2001 e dopo nove anni di permanenza qui, parla un italiano perfetto, una vaga inflessione romana, forse assorbita dalla tivù.
Già, la differenza. Abdoulaye è uno dei ragazzi stranieri che l’ha raccontata in un video di Maurizio Dematteis che fa parte del progetto «Giovani, cittadinanza e lavoro. Un confronto interculturale», curato dall’Istituto Euromediterraneo Paralleli. Questo ragazzo di 21 anni, padre operaio, madre che assiste gli anziani malati negli ospedali, sorella che studia Economia, nel filmato testimonia difficoltà che non hanno a che fare con la crisi, ma con il colore della sua pelle: un racconto che abbiamo approfondito, che mette a disagio e che rappresenta la condizione di tanti africani.
Il ristorante. «Nei mesi scorsi un mio amico italo-brasiliano che lavorava in un ristorante-pizzeria di corso Casale aveva convinto il suo titolare ad assumermi», spiega Abdoulaye. «Ho detto sì, ho dato il curriculum al mio amico: funzionava e così mi sono presentato. Ma il proprietario, come mi ha visto, ha cominciato a dire ”Mi spiace, non abbiamo più bisogno”. E così via. Mi faceva capire che c’era qualcosa che non andava. Poi è passata una donna. Lei è stata più chiara: ”No, gente di colore qui non ne vogliamo. Magari cinesi o marocchini, sì, ma negri no”. Così ha detto. Il mio amico, che adesso non è più lì, è mulatto. Forse, visto che il mio nome è arabo, avevano pensato che fossi marocchino: una gradazione di colore ancora accettabile...».
Abdoulaye ricorda un suo lungo soggiorno in Francia. «Ho lavorato in un McDonald’s a contatto con il pubblico, nessuno ha mai detto una parola sul colore della mia pelle. In Francia ero un essere umano come i bianchi, con cuore e sentimenti uguali. Qui la gente ti offende senza motivo. Mi spiace: io voglio bene all’Italia, i miei amici sono qui, la mia ragazza è italiana, ma mi capita troppo sovente di soffrire. Se potessi andrei dalle mie zie in Canada, ma senza cittadinanza non è possibile». La mancanza della cittadinanza è anche la condizione che gli impedisce di realizzare il suo sogno: entrare in polizia.
L’albergo. «L’estate scorsa avevo trovato un’occasione di lavoro in un albergo di Rimini: animatore per i bambini. Sono partito, mi sono pagato il viaggio, ho fatto tre giorni di prova. Alla fine del terzo il proprietario dell’albergo mi dice: ”Io ti terrei, ho visto che i bambini sono contenti. Le loro mamme, però, non lo sono”. Io ho capito, in fondo lui doveva accontentare i clienti. Però... Quando mi ha proposto di rimanere gratis, alloggiato, certo, fino all’arrivo del nuovo animatore, mi sono sentito offeso e sono tornato a Torino».
Il mercato. «Continuo ad essere disoccupato. Così, per aiutarmi, i miei amici che vendono borse e vestiti al mercato il sabato mi chiamano a dare una mano. Lì è normale una battuta, qualche parolaccia. Ma quando senti certe signore che dicono all’amica ”Vieni via che quello è un negro”, ti verrebbe da rispondere. Non lo fai perché se scoppia una vera lite e qualcuno chiama la polizia... i poliziotti non andrebbero dalla signora che mi ha insultato, verrebbero da me».
Parlando con Abdoulaye non solo di lavoro, emergono altre ferite. Scuola e oratorio. «Le cose non sono cambiate molto da quando sono arrivato, nove anni fa. A scuola, alla Baretti di via Santhià, c’era sempre qualche bulletto che mi dava del ”negro”. E anche all’oratorio. Ma mai che un ”don” dicesse qualcosa a chi mi dava del ”negretto”. No, la mia vita non è stata e non è bella. Alla fine ti fanno sentire come uno che non vale niente».