Giulio Bnedetti, Fabrizio Caccia, Andrea Garibaldi, Corriere della Sera, 30/10/09, 30 ottobre 2009
REGOLE, OBBLIGHI, DIRITTI: ECCO LA NUOVA UNIVERSITA’
(Pezzo generale + tre approfondimenti) -
La riforma dell’università «sarà legge nei primi mesi del prossimo anno, tra febbraio e marzo. Poi ci vorranno sei mesi per i decreti legislativi. Entro un anno sarà applicata». Lo ha annunciato il ministro Mariastella Gelmini. Negli 88 atenei italiani si discute della proposta appena varata dal governo. Si tratta di un provvedimento destinato ad avere un grosso impatto perché investe tutti gli aspetti della vita delle università. Che continuano a essere autonome, ma d’ora in avanti dovranno dar conto del proprio operato: dall’uso che viene fatto delle risorse finanziarie ai risultati della ricerca scientifica e dell’attività didattica. Le università che saranno gestite male, che daranno i risultati peggiori riceveranno meno finanziamenti. I soldi non verranno più dati a pioggia. Molte le novità in arrivo: dalla gestione affidata ai manager alla progressione di carriera in base al merito, dal reclutamento dei prof che partirà con un’abilitazione nazionale all’apertura dei cda al territorio e alle imprese, dalla valutazione dei docenti da parte degli studenti all’introduzione del prestito d’onore, dal termine di 8 anni per il mandato di un rettore ai contratti a tempo determinato per i nuovi ricercatori che non potranno svolgere questo ruolo per più di sei anni. Fino all’accreditamento dei corsi universitari’ sarà chiaro quali sono quelli che funzionano e quelli che non vanno – che secondo il ministro Gelmini, «va nella direzione di favorire l’abolizione legale dei titoli di studio». «Una proposta di Confindustria che condivido e che condividiamo dentro al governo – ha spiegato il ministro ”. chiaro che si tratta di un punto di arrivo e non di partenza».
Le polemiche non si sono fatte attendere. A poche ore dall’approvazione del ddl l’Unione degli Universitari (Udu), organizzazione di sinistra, ha proclamato la mobilitazione. Si comincia da Palermo dove stamani si svolgerà un’assemblea con il rettore Roberto Lagalla.
Secondo Piergiorgio Bergonzi, responsabile Scuola del Pdci – Federazione della sinistra «il Ddl del governo è contro l’università pubblica: conferma i tagli di risorse e definisce il processo di privatizzazione, trasferendo poteri senza precedenti ai consigli di amministrazione, prevedendo al loro interno una presenza di privati-esterni pari al 40 per cento e incoraggiando la trasformazione delle università in fondazioni». La Conferenza dei rettori (Crui) si riunirà mercoledì per un esame della riforma. Il giudizio è positivo, purché arrivino i finanziamenti. Ma come cambierà la vita quotidiana negli atenei nei prossimi anni? Ne parliamo con i diretti interessati: professori, ricercatori e studenti.
IL PROFESSORE - L’orario di lavoro fissato per legge -
una piccola rivoluzione, ma sembra destinata a cambiare le abitudini dei professori universitari. A cominciare da quelle relative all’orario di lavoro. Fino a oggi non si è mai saputo a quante ore dovesse ammontare l’impegno lavorativo di un docente universitario nel corso di un anno. Ora lo sappiamo: 1500 ore, 36 ore a settimana. Di definito, finora, c’era solo l’impegno legato all’attività didattica, 350 ore di cui 120 da destinare alle lezioni. In alcune università la certificazione delle ore di lezione è prassi normale. Ora verrà estesa a tutti gli atenei. Il compito spetterà ai nuclei di valutazione di ciascuna università. La riforma – sempre che l’iter parlamentare non cambi alcune cose – fissa dei paletti su una materia mai regolamentata a fondo.
Naturalmente la novità non spaventerà quei docenti che nell’università hanno passato e passano la gran parte del loro tempo. «Questa mattina ho cominciato a lavorare alle nove e stasera uscirò dall’università verso le 21. Domani lavorerò fino alle tredici. Non credo che con la riforma Gelmini e i suoi incentivi potrò dare di più. Come non potranno dare di più tutti i professori che amano questo mestiere e lo hanno scelto per questa ragione». Il professor Bruno Dente insegna al dipartimento di Architettura del Politecnico di Milano, una delle università più quotate a livello internazionale.
Cambia anche lo stipendio del prof. Oggi subisce un incremento automatico ogni due anni, a prescindere da qualunque tipo di verifica sull’attività didattica e scientifica. La remunerazione può raddoppiare solo in ragione del passare degli anni. Con la riforma non solo gli scatti diventano triennali, ma vengono concessi solo dopo una verifica che verrà fatta da una commissione composta in parte da membri esterni all’ateneo. I docenti che non hanno prodotto nulla di scientificamente valido restano al palo. Sulla progressione di carriera potrebbe influire anche il giudizio degli studenti, i cui risultati comunque restano riservati a un uso interno.
Il professor Eugenio Gaudio, docente di Anatomia nella facoltà medica della Sapienza di Roma è convinto che nei prossimi anni la qualità della sua vita di cattedratico potrebbe migliorare sulla spinta di una sfida che lo appassiona: «La riforma mi indurrà a impegnarmi di più sotto il profilo scientifico e didattico perché la progressione economica sarà legata alla produttività ». Un po’ alla volta le università si apriranno alla mobilità. Nei nuovi concorsi solo un terzo dei posti può esser riservato agli interni. Luisa Collina, docente della facoltà di Design del Politecnico di Milano, già si vede immersa in un ambiente nuovo, forse internazionale, più dinamico, più stimolante, molto diverso dall’attuale caratterizzato dalla quasi totalità di docenti formati e cresciuti nella stessa università. Cambia l’ingresso nella carriera accademica, attraverso un’abilitazione nazionale per titoli. «Finalmente potrei avere la possibilità di avere degli allievi ai quali posso dare una possibilità per il futuro – dice Andrea Lenzi, presidente del Consiglio universitario nazionale e direttore del dipartimento di Fisiopatologia medica della Sapienza ”. Se oggi vado nel mio dipartimento trovo dieci allievi bravi ai quali non so quale futuro dare. Domani, con la riforma, avrei la possibilità di far prendere loro un’abilitazione nazionale, non condizionata da posti definiti ma solo sulla base della qualità scientifica».
Giulio Benedetti
LO STUDENTE - Voto a chi insegna e certezza di trovare il prof in cattedra -
L’identikit dello studente di domani è quello di «uno che finalmente si trova al centro del sistema», dice Matteo Petrella, 27 anni, a cui manca un esame per laurearsi in Economia a Roma Tre. Per esempio, non sarà più un optional per lui incontrare all’università il suo professore: con la riforma Gelmini il docente di ruolo sarà obbligato a non dargli «buca» nel giorno di ricevimento e a salire in cattedra a fare lezione senza più farsi sostituire dagli assistenti, come invece oggi succede e non di rado. Anche perché gli conviene: lo studente del 2010 avrà un’arma in più per farsi rispettare dai «baroni». Il voto. Avrà cioè il potere di giudicare, di promuovere o bocciare il suo professore per la frequenza in aula e la bontà della didattica. E saranno dolori, per l’ateneo di riferimento.
Perché non saranno giudizi astratti, senza conseguenze: i voti dei ragazzi risulteranno determinanti per la ripartizione dei fondi statali. Il Miur premierà, cioè, con stanziamenti maggiori le università con i docenti più produttivi. «Insomma, una rivoluzione», commenta soddisfatto Renato Marini, 20 anni, studente di Scienze della comunicazione a La Sapienza. I voti (in alcuni atenei la pratica è già diffusa ma ora verrà estesa a tutto il panorama) potranno essere espressi dai ragazzi individualmente al termine dei corsi (forse tramite questionario). Ma anche in sede di Nucleo di valutazione d’ateneo: un organo già esistente che, però, prima della riforma Gelmini era costituito in maggioranza dai docenti interni. D’ora in poi non sarà più così.
L’identikit dello studente di domani è quello di uno che forse dovrà studiare di più ma anche soffrire di meno per tirare avanti. Nell’articolo 4 del ddl Gelmini è previsto un fondo speciale nazionale «finalizzato a sviluppare l’eccellenza e il merito dei migliori studenti, individuati tramite prove nazionali standard». In particolare, il fondo è destinato a erogare agli studenti più meritevoli «borse e buoni studio da utilizzare per il pagamento di tasse e contributi nonché per la copertura delle spese di mantenimento durante gli studi». Più facili anche i prestiti d’onore (saranno garantiti tassi bassissimi).
Tutti soldi, questi, che si aggiungeranno a quelli stanziati già ogni anno dalle Regioni e che dunque renderanno più cospicuo il gruzzolo a disposizione degli aventi diritto (oggi una borsa di studio per i fuorisede, in media, non supera i 2-3 mila euro l’anno). Novità in arrivo anche per mense e case dello studente: saranno garantiti degli standard qualitativi minimi a livello nazionale (a cui le Adisu regionali dovranno adeguarsi) per evitare che i ragazzi di un ateneo si trovino ad abitare in ministanze col bagno in comune (come succede in via De Lollis a Roma) e studenti di altre università abbiano invece tutti i comfort. Sorride Matteo Petrella, che però è presidente romano di Azione universitaria e dunque sicuramente pro Gelmini. Ma il consenso studentesco intorno alla riforma non è unanime. I ragazzi dell’Onda si pronunceranno solo la prossima settimana, quando renderanno pubblico un loro documento. Giuseppe Di Molfetta, 24 anni, studente di Fisica a La Sapienza, annuncia invece che il Coordinamento Link e l’Unione degli studenti hanno già indetto una giornata di mobilitazione nazionale per il prossimo 17 novembre, con scioperi e cortei in tutta Italia contro quello che ritengono «lo smantellamento dell’università pubblica » .
Fabrizio Caccia
IL RICERCATORE - Sei anni di contratto poi cambiano carriera e ruolo -
Ecco il ricercatore del futuro, disegnato dalla riforma Gelmini. Si laurea e, grazie ai meriti acquisiti durante gli anni di studio, ottiene tre anni di contratto con il dipartimento di una facoltà universitaria. Alla scadenza, se il suo lavoro sarà stato soddisfacente per il dipartimento, contratto rinnovato per altri tre anni. Nel frattempo, il nuovo ricercatore cerca di ottenere – per titoli – l’abilitazione nazionale all’insegnamento universitario. Con l’abilitazione in tasca, alla scadenza dei sei anni potrà essere chiamato, dalla sua o da altre università, a ricoprire la carica a tempo indeterminato di «professore associato ». Il ricercatore del futuro guadagnerà il venti per cento in più degli attuali ricercatori. Godrà di «scatti di merito». Dovrà garantire 1500 ore di presenza in facoltà, con un sistema di controlli. Dunque, non si potrà più essere «ricercatori a vita», come accade ai 23.000 in servizio oggi presso le università italiane. Se la riforma Gelmini sarà approvata dal Parlamento, si diventerà ricercatore superando un concorso bandito da un dipartimento di facoltà. Tre anni più altri tre. Se il ricercatore avrà ottenuto l’abilitazione nazionale potrà diventare professore associato, una delle uniche due figure docenti, assieme al professore ordinario. Senza abilitazione e senza chiamata, invece, l’esperienza terminerà dopo massimo sei anni.
« un progetto migliorativo – dice Marco Merasina, responsabile del Coordinamento nazionale dei ricercatori universitari ”. Contiene la ’promessa’ di un posto fisso e di una carriera. Mentre gli attuali ricercatori sono entrati con questa qualifica tramite concorsi universitari e rischiano con la stessa qualifica di andare in pensione. Ci sarebbe voluta una norma transitoria anche per noi».
Con le nuove norme un «nuovo» ricercatore avrà maggiore facilità di diventare associato rispetto ai «vecchi», che dovevano aspettare i concorsi per associato, rari e talvolta pilotati.
Capitolo retribuzioni. Oggi un ricercatore prende 1.300 euro al mese all’ingresso e può arrivare, dopo molti anni, a 3.000. Con la riforma dovrebbero esserci aumenti del 20 per cento. «La materia – dice Merasina – è affidata a una successiva delega». Gli scatti di anzianità dovrebbero diventare scatti di merito, legati alla relazione sull’attività svolta. Da biennali diventerebbero però triennali. Anche qui, delega al governo.
«Quello che manca – dice Merasina – è una definizione dello stato giuridico del ricercatore. Per quei sei anni di contratto farà ricerca o finirà a insegnare e a fare esami come tutti noi?».
Andrea Garibaldi