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 2009  ottobre 30 Venerdì calendario

CIOCCOLATO CHE PECCATO!

Una storia da cioccolatai. L’espres­sione dovrebbe indicare una que­stioncella, una vicenda da poco. E invece si trattò di una guerra che per un paio di secoli turbò le coscienze di molti cristiani e impegnò seriamente le mi­gliori intelligenze teologiche. La doman­da cui rispondere era: si può bere la cioccolata in quaresima? Alla dimentica­ta ma interessantissima – sia per gli a­spetti antropologici, sia per quelli reli­giosi – secentesca « disputa sulla ciocco­lata » dedica uno studio accurato il ricer­catore e biblista Claudio Balzaretti con Il Papa, Nietszche e la cioccolata, libro ap­pena uscito presso Edb ( pp. 256, eu­ro18,90) che l’autore pretende di allarga­re a « saggio di morale gastronomica » .
Ma atteniamoci invece alla rievocazione storica del conflitto, sorto in pieno clima controriformistico in seguito all’arrivo di insoliti e importanti « tesori » dal Nuovo Mondo: la patata, il mais, il pomodoro e – appunto – il cacao. Tutti generi alimen­tari che non solo rivoluzionarono il gu­sto del vecchio continente, ma in qual­che caso misero in serio imbarazzo an­che la dottrina cattolica; o almeno la sua morale. Il cioccolato – introdotto in Ita­lia probabilmente agli albori del Seicen­to ed a lungo riservato alle classi abbien­ti – risultò infatti particolarmente diffici­le da digerire ai canonisti, e non per questioni dietetiche. Si trattava di stabi­lire se l’uso della cioccolata ( intesa come bevanda calda di acqua e cacao) fosse ammissibile fuori dall’unico pranzo nei giorni di digiuno, ovvero in quaresima.
« La disputa può essere riassunta in po­che righe – scrive infatti Balzaretti ”. Se le bevande non rompono il digiuno, al­lora bisogna sapere se la cioccolata è u­na bevanda o un cibo, perché essa ha come ingrediente il cacao, che è un ali­mento » . Il dibattito viene ufficialmente avviato nel 1636, allorché l’erudito spa­gnolo Antonio de Léon Pinelo pubblica la sua « Questione morale se il cioccolato rompe il digiuno ecclesiastico » . In ben 238 pagine Pinelo – che era nato e vissu­to a lungo in America Latina – passa in rassegna le 6 ragioni per cui la cioccolata va considerata una bevanda, le confuta analiticamente e conclude che... se be­vuta una volta al giorno in modica quan­tità ( mezza oncia) non infrange la rego­la, però ne fa perdere il merito ascetico.
In realtà l’argomento era già stato di­scusso da altri, citati dal Pinelo stesso, come nel 1591 il medico Juan De Carde­nas ( contrario all’assunzione di ciocco­lata in quaresima) e nel 1609 lo storico del cacao Juan De Barrios, che invece la reputa una bevanda molto sana. Non si trattava peraltro di discussioni pura­mente accademiche, in quanto parec­chie testimonianze ci informano che in America latina era uso... bere cioccolata in chiesa addirittura durante la messa!
Lo facevano le nobildonne, che nelle funzioni più lunghe si facevano portare la bevanda dalle serve. Sulla questione sembra inizialmente ripetersi il secolare contrasto tra gesuiti e domenicani: i pri­mi che in genere propenderebbero per permettere la consumazione della cioc­colata anche nei tempi di digiuno ( nel 1627 lo fa padre Escobar – canzonato per il suo lassismo dal giansenista Pascal – purché bevuta senza uova o latte, men­tre nel 1634 padre Torres permette pure l’uso di zucchero); i secondi di solito contrari. Non si tratta però di una legge fissa, anzi; tuttavia gli schieramenti sem­brano così palesi da supportare la diffu­sione della diceria che i gesuiti siano fa­vorevoli alla cioccolata per interesse e­conomico, in quanto in Brasile avevano molte piantagioni di cacao.
P
eraltro ai figli di sant’Ignazio si ac­codano molte altre auctoritates:
come il seguitissimo Tomàs Hurta­do ( 1642) oppure padre Tommaso Stroz­zi, che nel 1689 pubblica a Napoli un poema in esametri latini sulla questione. E paradossalmente risultano più severi parecchi medici, che nei loro trattati non dubitano di catalogare la cioccolata tra i cibi fortemente nutrienti. Il morali­sta siculo padre Antonino Diana, teati­no, nel 1637 appare più salomonico: ri­porta i pareri dei colleghi e conclude che la decisione debba essere lasciata ai teo­logi spagnoli, gli unici ad avere compe­tenza « geografica » in materia... Con i de­cenni si precisano comunque le posizio­ni, ognuna delle quali pretende di aver ottenuto a suo favore pronunciamenti ufficiali da Roma; vengono spesi nomi di pontefici – Urbano VIII, Paolo V – che a­vrebbero approvato ( sempre oralmente) la bevanda. Nel 1664 si sbilancia sulla « celeberrima controversia » almeno un cardinale, Francesco Maria Brancaccio, il quale in un apposito trattato sta con i possibilisti, pubblicando addirittura alla fine del suo testo una ricetta per prepa­rare una cioccolata parecchio sostanzio­sa. Non l’avesse mai fatto! Subito viene rintuzzato dall’agostiniano Niceforo Se­basto, indizio che il dibattito dalla Spa­gna stava spostandosi in Italia; dove in effetti impazza per oltre metà del Sette­cento. Ancora nel 1748 il domenicano Daniele Concina si scaglia contro la cioccolata « in tempo di digiuno » : prima dal pulpito a Roma, poi in un apposito trattato; chi sostiene la liceità quaresi­male della gustosa tazza diffonderebbe « una dottrina falsa, erronea, scandalosa » e, se non vuole rinunciarvi per mortifi­cazione, lo faccia almeno perché la be­vanda è cosa da ricchi.
S ant’Alfonso Maria de’ Liguori giudica rigorista tale posizione, ma al Concina risponde anonimamente il solito gesuita, Jacopo Sanvitale, usando tra l’altro un argomento assai specioso: gli indios in America usano il cacao come vero e proprio cibo; ma se fosse così, perché mai fanno venire schiavi dall’Africa?
Non avrebbero forze sufficienti a lavorare essi stessi? Insomma, la polemica teologico- moralistica si è incartata nei cavilli e per fortuna è ai suoi ultimi sprazzi. Ancora a metà Ottocento, però, un libello evangelico taccia di « papisti » quanti si preoccupano « se è permesso prendere la cioccolata » .
Non per nulla Manzoni ( che la storia la sapeva) ne fa sorbire una chicchera a Gertrude; ma solo la mattina in cui lascia la casa paterna per diventare ahimé la « monaca di Monza » .