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 2009  ottobre 29 Giovedì calendario

Singapore, l’ultimo paradiso (fiscale)- In tre banche diverse per aprire un conto. Mail criptate, parole d’ordine

Singapore, l’ultimo paradiso (fiscale)- In tre banche diverse per aprire un conto. Mail criptate, parole d’ordine. E impiegati italiani SINGAPORE – Fuori, in Capital Square, l’andamento delle Borse e delle valute scorre su titoli cubitali al neon lungo la parete del palazzo. Dentro, un commesso ti viene in­contro sussurrando prima ancora che tu abbia il tempo di metterti in fila allo sportello. «Vuole aprire un conto? Non residente? Venga con me, prendiamo l’ascensore». Salire ai piani alti di Citigroup, a Singapore, è un’esperienza singola­re. Questa banca è fra le grandi re­sponsabili e le grandi vittime della crisi. E questo Paese a parere di mol­ti è un paradiso fiscale, regno di quelle tenebre finanziarie che avreb­bero alimentato il crash. Citigroup alla fine si è salvata solo perché il Te­soro Usa ne ha preso il controllo con 45 miliardi di dollari, una quota del 36% e garanzie a tappeto sui suoi de­biti, mentre il governo di Singapore è diventato il secondo azionista al­l’ 11%. Quanto alla città-Stato, ha fir­mato tutti gli accordi richiesti sullo scambio di informazioni fiscali e or­mai l’Ocse sta per toglierla dalla «li­sta nera» dei centri offshore. Chi ar­riva qui, a questo punto, si aspetta prudenza, saggezza, trasparenza. Poi l’ascensore si apre su un bel­lissimo salotto al quarto piano. Una giovane cinese si informa della cifra che vorrei depositare e la giudica ab­bastanza cospicua per chiamare un superiore. Arriva una signora giap­ponese in un austero tailleur nero, che mi fa sedere in un secondo salot­tino più appartato. Prende atto della somma che dichiaro e prende anche atto che, a mio dire, la vorrei far uscire dalla Svizzera perché non mi fido più delle garanzie di discrezio­ne offerte laggiù; non mi chiede che mestiere faccio. «Se depositate i vo­stri soldi in Svizzera, voi europei pa­gate il 20% sulle plusvalenze e nel 2011 sarà il 35%: qui invece l’aliquo­ta per i non residenti è zero», spiega subito. E il segreto bancario? «Non è come in Svizzera, è di più. Sì, il go­verno ha firmato gli impegni del­­l’Ocse, ma qui la finanza è un setto­re fondamentale: il suo nome può emergere solo nel caso di una speci­fica rogatoria, motivata e con prove, per un reato». Ma neanche questo deve preoccu­pare la clientela, incalza la signora: «Se vuole un grado ancora maggio­re di confidenzialità, allora faccia­mo un conto Bvi». Bvi? «Sì, alle Bri­tish Virgin Islands. Costituiamo per lei una holding Bvi con dentro il suo conto, che però continua a essere ge­stito da qui». In teoria, le Isole Vergi­ni britanniche sarebbero un altro (ex?) paradiso fiscale che l’Ocse ha iscritto nella «lista bianca» delle giu­risdizioni che hanno «sostanzial­mente applicato gli standard fiscali internazionali»; sempre in teoria, l’arcipelago dei Caraibi avrebbe fir­mato anche impegni sullo scambio d’informazioni con Francia, Olanda, Svezia, Australia, Gran Bretagna, Sta­ti Uniti (con l’Italia, no). Ma per questi dettagli adesso non c’è tempo. La manager giapponese presenta già un foglio sui piani d’in­vestimento per la mia somma, uno dei quali annuncia: «Compra e ven­di valuta per un ammontare fino a dieci volte il tuo conto». Ma come: qui, in una banca coperta dalle ga­ranzie del contribuente americano? Possibile? «Certo – spiega la giap­ponese – lei può andare in leva 3, 5 o 10». Significa che Citigroup mi presta fino a dieci volte l’ammonta­re dei miei soldi per farmi investire e decuplicare i miei guadagni oppu­re, se sbaglio mossa, le mie perdite. Posso puntare anche su valute in te­oria non scambiabili sul mercato aperto: «Con noi investe anche in yuan cinesi», spiega la signora. Un conto così equivale insomma a una specie di «hedge fund» ad perso­nam e mentre esco dalla banca con quel foglio in mano ripenso alle pa­role di Tim Geithner, segretario al Tesoro Usa e azionista di controllo di Citigroup: «Non permetteremo al sistema di tornare ai comportamen­ti che hanno causato la crisi. Per quello lavoriamo così duro per ri­durre la leva eccessiva, è fondamen­tale » (Cnbc, 18 ottobre); ma torna al­la mente anche il sesto punto del programma per il G20 del segreta­rio al Tesoro Usa: «Eliminare i para­disi fiscali», recitava (26 marzo). Magari tutto funziona in modo di­verso alla Torre Nord di Suntec City, 32esimo piano, sede a Singapore del­la Banca della Svizzera Italiana. Quassù, non appena uno pronuncia il suono di una buona cifra poten­zialmente da depositare, compare un funzionario di madre lingua ita­liana: uno delle centinaia che, per qualche ragione, lavorano di questi tempi nelle sedi delle banche svizze­re a Singapore. L’uomo prende nota di quanti soldi porterei, non mi chie­de che mestiere faccio. Ma niente le­va dieci né yuan cinesi da queste parti, qui l’offerta è più franca: «Per tenerci in contatto possiamo scam­biarci anche mail criptate – spiega il funzionario ”. Oppure ci mettia­mo d’accordo e la avverto in antici­po io stesso quando sto per tornare in Europa. La chiamo e le dico: ’so­no il tal dei tali, vengo giù in vacan­za, ci vediamo?’». Se poi lei volesse ritirare periodicamente i suoi inte­ressi e dividendi, tutto si arrangia con una «messa a disposizione» in denaro liquido presso uno sportello di Lugano. Cifre ufficiali non ne esistono, ma il sistema per i clienti italiani appare perfettamente rodato dall’uso. La so­la Banca della Svizzera Italiana gesti­sce nella città-Stato fondi della clien­tela per 1,4 miliardi di dollari. Si sfo­ga il funzionario: «Gli autovelox fi­scali attorno a Singapore non li pos­sono mica mettere!». Ora, prose­gue, la banca sta ampliando la sua sede locale da 40 a 100 addetti. «Non è solo per i conti anonimi, dei quali in fondo noi viviamo: è anche per catturare i frutti della crescita in Asia, dalla Malesia alla Cina». Ancora più globale è la veduta dal 24esimo piano di Raffle Quay, vec­chia sede di Abm Amro oggi acquisi­ta da Royal Bank of Scotland (Rbs). Quella fu una scalata a colpi di rilanci che Alistair Darling, cancelliere dello Scacchiere di Londra, definì «disa­strosa » (e poi nazionalizzò Rbs per salvarla). Ma a Singapore un funzio­nario pachistano di Rbs guarda giù dalle pareti di cristallo il panorama sul porto più grande del mondo e ras­sicura il suo possibile cliente. Non mi chiede che mestiere faccio, mi dice: «Qui gestiamo depositi originati dal­­l’Asia, dall’Europa, dal Medio Orien­te, dall’Africa, dall’America Latina. So­lo con gli statunitensi non riusciamo a lavorare, il fisco americano è molto attento alle lettere che mandiamo ai clienti. Del resto qui il governo ha preso gli impegni previsti dall’Ocse, certo, ma mica significa che cambie­rà qualcosa: il segreto bancario è trop­po importante per questo Paese». Qualora io volessi ritirare i dividendi da Singapore, prosegue il funziona­rio pachistano, lui mi consegnerà un bancomat utilizzabile a uno sportello sotto casa al costo di 5 euro per ogni operazione. E qualora il premier bri­tannico Gordon Brown volesse attac­care di nuovo i centri offshore, come fece al G20 di Londra, quello è un pro­blema suo: l’altro Gordon Brown, il socio di controllo di Rbs, non se n’è neanche accorto.