Domenico Quirico, La stampa 27/10/2009, 27 ottobre 2009
ENRICO V IL GRANDE BLUFF
Le battaglie, concentrazioni eccezionali di uomini azioni e passioni, drammi perfetti «dove i padri seppelliscono i figli», scatenano rabbi, passioni, voglia di vendetta, narcisismi. Il loro ricordo è olio bollente. Nessun evento ne eguaglia la intensità: le mille epopee individuali repliche del dramma collettivo, la catastrofe di un rinforzo arrivato troppo tardi, l’enigma di un panico improvviso, l’estro di uno stratagemma riuscito. E poi l’idea corrosiva e fastidiosa che potevano avere un esito diverso: la domanda dura morire di chi è la colpa. Sovraccarica di aneddoti, frasi indimenticabili scene edificanti, la battaglia ha lo «charme» dei racconti a cui non crediamo più. Sembra fatta apposta per attorcigliarci intorno l’identità delle nazioni: la Francia era la Marna, l’Italia il Piave… Perchè c’è la battaglia e il mito della battaglia ,che spesso la assorbe. Soprattutto quando la battaglia è stata «raccontata» da grandi scrittori: Tolstoj, StendHal, Shakespeare.
Sono gli americani oggi ad esserne affascinati: forse perché, arcipotenti, stanno perdendo tutte le guerre anche quando le vincono sul campo. Cercano insegnamenti, utili lezioni. Così non sorprende che sia il New York Times a pubblicare una lunga corrispondenza dall’Europa, con interviste a storici inglesi e francesi, che getta una luce diversa su Azincourt quando «la gran virtù dei cavalieri antichi» cominciò a diventare rancida. Hanno scoperto una grande bugia, un trionfo si è fatto più scialbo. Enrico d’Inghilterra, il vincitore, astutamente, «tagliò» il numero dei suoi soldati: gli serviva per affermare che 6000 valorosi avevano annientato almeno 20 mila nemici, ovviamente con l’aiuto di Dio. I pochi hanno avuto ragione dei molti, la pitoccaglia affamata ha schiantato la nobiltà: schema perfetto per canzoni, poemi, cronache. Shakespeare portò il suo secolare sostegno teatrale in attesa di quello del cinema. E in questo versione la vittoria nel giorno di san Crispino è entrata nella mitologia inglese. Ha sollevato le anime dei sudditi ancora nelle trincee della Somme e sotto il sole di El Alamein.
Il campo di battaglia è rimasto incredibilmente intatto: un grande rettangolo, inclinato nel mezzo contornato da boschi che all’epoca erano solo più fitti. Sembra uno stadio perfetto per scatenare il più crudele dei giochi guerrieri. Era furbo, il re Enrico. Nessuno avrebbe scommesso sulla sua squadra. Aveva pensato di reimbarcarsi per l’Inghilterra e da giorni marciava verso Calais, come dire, sulla punta dei piedi, cercando di farsi dimenticare. Quella vigilia del 25 ottobre 1415 aveva cenato solo con delle noci e lui e la sua armata di straccioni si erano coricati sul suolo fradicio. I francesi invece... Eccoli: ricchi, festaioli, sicuri già si dividevano il bottino si giocavano ai dadi il riscatto per il re inglese e i suoi cavalieri più zeppi di feudi e titoloni. Strillano sempre quei francesi, accendono fuochi, si beve e si prega, qualcuno già si fa issare con i palanchini sui cavalli, pronto a passar la notte in sella per esser primo a agguantare gli straccioni inglesi. Sono tutti ammonticchiati i nobili superbi, prigionieri senza saperlo delle loro bare di acciaio, con le armature da giganti, già separati dal mondo volgare di vivi, agguantati da un mondo superato che li tira verso il fondo.
Enrico ha già ascoltato tre messe quando guarda i suoi arcieri schierati, i suoi soldati-operai. Non hanno armature, hanno anche abbassato i calzoni perché a furia di bere acqua marcia hanno sono afflitti dalla dissenteria, gettano in aria bestemmie scultoree. Ma sono una «band of brothers», compagni di cento battaglie, macchine per uccidere ben coordinate. E hanno gli archi. Nel piccolo museo di Azincourt invitano a sollevare un sacco di 40 chili: per capire qual era lo sforzo necessario per tenderli. Ogni arciere tirava dieci frecce al minuto, secondo i nuovi calcoli erano almeno 7,8 mila, che vuol dire che almeno 70 mila frecce cadevano insieme sui cavalieri francesi.
La gigantesca acciaieria mobile si mise in movimento, ma il terreno era fradicio di una pioggia subdola, il pantano imprigionava gli zoccoli. Impossibili le larghe spirali nei campi come in un immenso maneggio, con la classica insolenza delle cavallerie. Gli assalti svanirono in grandi folate. Poi fu solo massacro, «sei piedi» di cadaveri, il sangue si mescolò al fango: i campi di battaglia medioevali erano scannatoi dove si faceva fortuna, ben passati al setaccio. Prima i morti da spogliare, poi gli agonizzanti per trasformarli in morti a colpi di mazza o di coltello sfigurandone i visi; ultimi i feriti e i prigionieri per il riscatto. La bugia di Azincourt ha nascosto il fatto che fu, in fondo, una falsa vittoria, senza conseguenze politiche: il trono di Francia restò a un re folle, il corso della Storia non è cambiato. Si pensa che ogni battaglia è una fine del mondo. E invece è solo un mito.