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 2009  ottobre 27 Martedì calendario

QUANDO I GRANDI GIORNALI ERANO LA BOCCA DEI GOVERNI


Vorrei chiederle un parere a proposito della polemica sulla campagna mediatica posta in essere da alcuni giornali stranieri nei confronti del governo italiano. Lei ritiene sinceramente avulsi da ogni pressione governativa gli articoli usciti di recente sul Times in merito alle «mazzette» somministrate da ufficiali italiani ai talebani? In una passata visita al Public Record Office (gli Archivi britannici, ndr) lessi con interesse una corrispondenza tra un funzionario del Foreign Office e un giornalista dell’ Economist in cui il primo forniva al secondo determinate raccomandazioni in merito alla stesura di un articolo sulla politica di Hailé Selassié in Etiopia nei primi anni 70, invitandolo a mettere in luce determinate problematiche care al governo di Sua Maestà e tralasciarne altre.
Luca Puddu
luca_puddu@msn.com

Caro Puddu,
Leggerei volentieri la cor­rispondenza tra il fun­zionario del Foreign Of­fice e il giornalista dell’ Econo­mist perché soltanto così po­trei dare un giudizio sulla natu­ra dei loro rapporti. Non è proibito a un governo esporre le proprie idee alla stampa e sperare che il giornalista, scri­vendo, ne tenga conto. E non è proibito al giornalista ascol­tare le tesi del governo. Ma mi sembra difficile immaginare che l’ Economist , negli anni Set­tanta del secolo scorso, accet­tasse di essere imbeccato dal Foreign Office. Prima di giun­gere a tale conclusione occor­rerebbe, quanto meno, verifi­care come gli affari etiopici sia­no stati raccontati e analizzati dal settimanale britannico nei giorni seguenti.

Ho espressamente scritto «negli anni Settanta» perché vi fu certamente un periodo, fra l’Ottocento e il Novecento, in cui la grande stampa d’infor­mazione, nelle maggiori demo­crazie, trattava quasi sempre le questioni di politica estera tenendo conto della linea go­vernativa. I giornali erano indi­pendenti e criticavano spesso i loro governi. Ma in tutte le maggiori vicende internazio­nali scattava una sorta di rifles­so patriottico. Accadeva a Lon­dra, dove il corrispondente di­plomatico del Times era di casa al Foreign Office. Accadeva a Parigi, dove la prima colonna della prima pagina di Le Temps , abitualmente dedicata alle questioni internazionali, rifletteva tradizionalmente le posizioni del Quai d’Orsay (dal nome della via lungo la Senna dove sorge il ministero degli Esteri francese).

Nelle tre maggiori democra­zie dell’occidente (Gran Breta­gna, Francia e Stati Uniti) la svolta ebbe luogo nel secondo dopoguerra e fu dovuta a un grande trauma internazionale: la spedizione anglo-francese di Suez nel caso della Gran Bre­tagna, la guerra d’Algeria nel caso della Francia e la guerra del Vietnam nel caso degli Sta­ti Uniti. Ciascuno di questi eventi ebbe l’effetto di creare un forte disagio in seno alla co­munità nazionale e di esporre i governi a una bordata di criti­che che erano al tempo stesso politiche e morali. I motivi del­lo scandalo furono, tra l’altro, le bugie del governo britanni­co al momento della guerra di Suez, la tortura praticata dalle forze francesi in Algeria e gli indiscriminati bombardamen­ti americani sul Vietnam del Nord. Di fronte a questi movi­menti di opinione i grandi giornali giunsero alla conclu­sione che il vecchio riflesso pa­triottico dovesse cedere il pas­so a un nuovo dovere: quello di rispecchiare i sentimenti della pubblica opinione. Non sempre, beninteso, questo nuovo compito viene realizza­to in modo impeccabile. Ma il vecchio legame che univa i grandi giornali d’informazio­ne ai loro governi si è rotto o, perlomeno, molto fortemente allentato.