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 2009  ottobre 27 Martedì calendario

L’OBIETTIVO DEI TERRORISTI? FAR SALTARE LE ELEZIONI IN IRAQ

L’incubo peggiore degli attentati con le autobombe, in Iraq e in tutte le guerre, è che non si ha il tempo di capire. L’esplosione arriva senza preavviso, non se ne intuisce la direzione, non ci sono segnali premonitori, mentre l’onda d’urto è travolgente come la frustrata di un uragano. In Iraq i gruppi terroristici e della guerriglia hanno adottato il sistema di due esplosioni in rapida successione: fu così che venne sventrato l’Hotel Palestine, è stato così che i kamikaze hanno ucciso domenica 160 persone nel cuore di Baghdad, a Haifa Street, a un passo dalle fortificazioni della Green Zone.
 in questo Iraq, tutt’altro che pacificato, che il 16 gennaio prossimo si dovrebbe andare a votare per il Parlamento: il condizionale è d’obbligo perché non è stato ancora raggiunto l’accordo per una nuova legge elettorale e la situazione lascia presagire altri attentati e un’ondata di destabilizzazione. Questo è l’obiettivo del terrorismo: far saltare le elezioni e screditare il governo e le istituzioni irachene. Diciamolo con franchezza: tutti si stavano dimenticando dell’Iraq. Con l’Afghanistan, il Pakistan e l’Iran in primo piano, Baghdad non era più da un pezzo nei titoli di prima pagina. Il bagno di sangue iniziato nel 2003 con l’occupazione americana e la caduta del regime di Saddam Hussein era stato ormai archiviato anche nella testa dei mass media. Eppure in Iraq restano schierati 120mila soldati americani, molti di loro in lista d’attesa per essere trasferiti sul fronte afghano e gli altri ad aspettare il fatidico ordine di un ritiro generale che Bush aveva previsto per il 2011 e Obama anticipato alla fine del 2010.
Ma l’effetto annuncio, a differenza che sui mercati azionari, nelle guerre raramente ha successo. servito a distogliere un po’ l’attenzione per concentrare le forze sull’Afghanistan e si è voltata la testa da un’altra parte per riscoprire, adesso, che l’Iraq è ancora un problema. Per altro non ignorato dai comandi militari di Washington che non si sono ritirati da tutte le città, come aveva proclamato in giugno la fanfara della propaganda irachena, ma restano a presidiare centri nevralgici come Kirkuk, la città del petrolio ferocemente contesa tra arabi, curdi e turcomanni.
Il tragico leit motiv iracheno è ben noto: le divisioni tra etnie ( arabi e curdi), quelle settarie e religiose tra gli sciiti, al potere, e i sunniti, relegati in secondo piano dopo la fine di Saddam. Ma anche il terrorismo di importazione, quello di al-Qaeda e dei combattenti arabi, non è stato sconfitto.
Sullo sfondo c’è la questione irrisolta di un mondo arabo e musulmano entrato nella centrifuga dei conflitti etnici e religiosi, acuiti dall’intervento occidentale che invece di sopirli li ha inaspriti: in Medio Oriente, dall’epoca coloniale in poi, si disegnarono i confini di nuovi paesi, aggregazioni a volte artificiali e caduche, adesso abbiamo a che fare con le frontiere di stati clamorosamente falliti o alla ricerca disperata di una nuova identità.