Paolo Pejrone, La Stampa 27/10/2009, 27 ottobre 2009
La solitudine dell’orto eretico - Padre Paccherini è perentorio: l’orto si chiude, anzi è chiuso al pubblico
La solitudine dell’orto eretico - Padre Paccherini è perentorio: l’orto si chiude, anzi è chiuso al pubblico. Troppe interferenze «mondane» con il monastero. Certo non è colpa delle verdure né dei pergolati, né tanto meno delle bellissime e nobilissime mura: un orto tra i ruderi romani, al fianco di una basilica antica e famosa, accanto al convento fondato da Elena, imperatrice madre di Costantino imperatore, ha, per chi ha il senso del tempo, della storia e del bello, una giustificata ed appassionante attrazione. L’orto di Santa Croce in Gerusalemme è un posto raro, unico, un posto dove il sublime si mescola con l’infimo, dove la fede trova forza nella terra, dove il letame e l’acqua possono fare veri miracoli, dove i famosi broccoli romani, si vanno a mescolare alle letture dei breviari, dove il sudore si unisce alla rugiada, dove la natura, aiutata dalla speranza, dall’uomo e dal lavoro, si confonde con il cielo. L’associazione Tutto questo affascinante stare insieme, questa eccellente convivenza iniziata, incoraggiata da dom Simone e da padre Luca alla fine degli anni 90, quasi fossero eresie o deviazioni del pensiero, sono state rifiutate e abbandonate dalla nuova «gestione»: non più carciofi, non più prezzemoli e sedani, non più insalate e patate. Rimangono e rimarranno soltanto un ricordo reso vivo dalla memoria di un passato oramai grandioso: di quando Giulio Sacchetti, presidente ed esponente intelligente e capace di un’associazione volenterosa (e ben radicata nella vecchia e pontificia Roma) iniziò e favorì i primi passi di un restauro moderno e filologico dello storico ed antico teatro di Eliogabalo. Da zona sinistrata e rovinosa, si mutò, grazie alla oculata e facoltosa generosità dell’Associazione Santa Croce in Gerusalemme, in un grande e semplice orto: il segno fu preciso e con caparbia tranquillità indicò un nuovo, coinvolgente e concreto percorso tra generosi ed illuminati membri della Chiesa e della città di Roma. D’ora in avanti la porta del convento sarà sbarrata per tutti i visitatori esterni. Cinque anni «Quest’anno non vedrò il mio orto nel mese di luglio - dice dom Simone -, non scenderò con i grandi cesti a raccogliere i pomodori e le numerose verdure, non vedrò il cancello di Kounellis, grande sipario tra il monastero e il mondo, un sipario che trasmetteva al mondo, attraverso il velo della preghiera, che qualcuno invitava Dio a benedire ogni creatura. Non potrò scendere a vedere il sorriso dell’orto mentre si disseta e sbadiglia felice che tutto proceda. Camminando tra i viali sento il desiderio di ringraziare ogni pianta, ogni ortaggio, ogni fiore per la loro presenza, il loro servizio e confermargli che loro erano i veri protagonisti nei vari libri, servizi, pubblicazioni dal 2004 a oggi. Abbiamo vissuto insieme per cinque anni, in armonia, collaborando a crescere la bellezza del creato». Grido di dolore Quello di Dom Simone è un vero autentico grido di dolore, segno di una ferita profonda nel cuore di una persona che, vedendo lontano, forse troppo, e con il coinvolgimento di tutto (o quasi) il convento, si era buttato nei tempi liberi nel duro lavoro e nella sapiente assistenza dell’orto, nella vendita dei suoi prodotti e nelle visite dell’orto stesso. Visite che in pochi anni divennero quasi obbligatorie e numerosissime per gli stranieri (e non soltanto), «grandi» e comuni, che vi presero a visitarlo più come vivo ed esaltante simbolo di fatica, di conoscenza e di pace che come una semplice coltivazione di legumi e verdure! Avendo chi vi scrive seguito fin dai primi passi l’evolversi dell’idea, del progetto e della realizzazione dell’orto, non può che unirsi allo sdegno generale per una così dura reazione dell’attuale «gestione» che va contro i tempi e vuole dimenticare in modo rozzo e oscurantista le fatiche di molte persone coinvolte, a suo tempo e negli anni, generosamente e con vera fede nel lavoro di restauro. Un orto non è soltanto un posto: è il simbolo vivente della sapienza e dell’amore. In un orto la fatica ed il sudore non sono che delle conseguenze: quasi fossero parte vita e felice dei frutti e della generosità della terra. Terra che quando è trattata con saggezza e con amore può rispondere, quasi fosse miracolosa, a tanti, umili, misteriosi, trascendenti interrogativi...