Alessandro Piperno, Corriere della Sera 26/10/09, 26 ottobre 2009
L’altro Robespierre, il Terrore benigno - Su, confessatelo: quando dite: «Questo libro non mi interessa», in realtà state pensando: «Questo scrittore, quest’uomo non mi interessa»
L’altro Robespierre, il Terrore benigno - Su, confessatelo: quando dite: «Questo libro non mi interessa», in realtà state pensando: «Questo scrittore, quest’uomo non mi interessa». Diceva bene Sartre: chi se ne importa di un libro! L’importante è l’uomo che l’ha scritto, e la passione che lo ha spinto a scriverlo. Il che vale anche per uno storico, se si chiama Sergio Luzzatto. Nei confronti del quale confesso un morboso interesse. Da anni lo seguo con passione e divertimento. Lasciandomi sommergere dalla monellesca intemperante vitalità che sgorga dai suoi interventi giornalistici, che, sebbene talvolta mi vedano dissenziente, non riesco a non leggere fino in fondo. Cos’altro chiedere a un pezzo di giornale, se non il buongusto di farsi leggere fino all’ultima riga e di scatenarti qualcosa dentro? Anni fa lessi con stupore il suo geniale libro sul corpo del Duce. Seguii la polemica suscitata dal volume sulla crisi dell’antifascismo. Considero la monografia su Padre Pio dell’anno scorso una delle più avvincenti documentate terrificanti radiografie del mio Paese. In cui, tra l’altro, Luzzatto dava prova di quello che vorrei pomposamente chiamare il metodo- Luzzatto. Che consiste pressappoco in questo. Primo, un’idea forte. Una sola: ossessiva e troneggiante. Secondo, una vastissima documentazione messa al servizio dell’idea forte. Terzo, il talento narrativo. Con tanto di trucchetti: uso del punto a capo, creazione della suspense, stile svelto, qua e là ironico, per lo più sarcastico. Quarto, un’inclinazione alla militanza. Non c’è niente di quello che Luzzatto scriva che non abbia una sia pur sottesa implicazione con la sua passione ideologica. Ecco il cocktail micidiale che Luzzatto ripropone nel suo ultimo libro dedicato alla figura di Bonbon Robespierre, fratello minore del più celebre Maximilien. Che Sergio Luzzatto torni a occuparsi (dopo averlo fatto a più riprese) della Rivoluzione francese non mi sorprende. La passione per la Rivoluzione fa parte del suo orizzonte morale: feroce, intransigente, risentito. Luzzatto è un azionista non pentito: la sete di virtù e il gusto per la rivolta è nel suo Dna. Il Terrore gli deve apparire un ottimo antidoto ai tempi che viviamo che, immagino, non gli piacciano per niente. Stavolta Luzzatto si cimenta con un personaggio in apparenza piccolo, di cui ci offre un emblematico medaglione. Chi è Augustin Robespierre per Luzzatto? Be’, uno dei diffamati della Storia. Uno di quei minori che se ne stanno lì a marcire nei capziosi cliché che gli sono stati cuciti addosso dai contemporanei e dai posteri. Per sottrarre Augustin a questo destino, Luzzatto – direi luzzattianamente – non teme di polemizzare con scrittori del calibro di Michelet, Taine, Furet. Così come non teme di criticare coloro che, per ragioni strumentali, hanno assimilato il destino del minore (in tutti i sensi) dei Robespierre a quello del maggiore. Enfatizzando il gesto estremo (così toccante) di Augustin, che sceglie di seguire il fratello sul patibolo e di condividere con lui la ghigliottina. Ma per Luzzatto, Robespierre il giovane non è una succursale della grande ditta – Ghigliottina & Incorruttibilità – di Robespierre il vecchio. Ma semmai un’alternativa. Ecco l’idea forte. Che Luzzatto persegue da par suo. Una volta Charles Baudelaire scrisse: «Vi è in ogni mutamento qualcosa di infame e insieme di piacevole, qualcosa che ha dell’infedeltà e del trasloco. Ciò basta a spiegare la rivoluzione francese». Una frase cinica che dà conto dell’euforia velleitaria che anima ogni rivoluzionario, ma anche della sua esigenza di movimento. Che Augustin Robespierre seppe incarnare assai meglio del suo stanziale fratello maggiore. «Se fosse un film – scrive Luzzatto – la storia di Augustin Robespierre (…) sarebbe un road-movie: la centralità della strada e il brivido dell’imprevisto, la paura di perdersi e la tentazione di tornare indietro. Ma sarebbe anche un western, racconterebbe un’avventura di frontiera». Siamo in pieno Terrore. allora che Augustin Robespierre viene nominato, dall’Assemblea, rappresentante in missione presso l’Armée d’Italie: mandato che comporta un avventuroso viaggio nel Mezzogiorno della Francia. Un compito straordinariamente rischioso, nel quale Augustin ha la possibilità di esprimere la propria differenza dal fratello, e da tutti gli altri montagnardi assetati di sangue. Sì, il fratello minore dell’Incorruttibile è attratto dall’avventura. Che non sia questo entusiasmo per la vita a riempire il suo cuore di sdegno di fronte al sangue inutilmente versato dai seguaci del fratello? L’incorruttibilità del famoso Robespierre che trova una vitale alterità dialettica nella corruttibilità di Robespierre il giovane? Questo l’antidoto messo a punto dal secondogenito per difendersi dal veleno del primogenito? Lasciarsi corrompere dalla vita? E quindi anche dalla pietà, dal buonsenso, dalla strategia?... Le pagine dedicate a questa contrapposizione familiare sono così efficaci. Maximilien ha vissuto «senza aver mai posato lo sguardo, beato lui, sul ligneo traliccio di una ghigliottina montata in qualche piazza di provincia. Senza mai avere udito il fragore della mannaia liberata dal boia, né avere respirato l’odore del sangue versato di fresco », ma anche «senza mai aver visto il mare ». Luzzatto adombra l’idea romantica che, invece, Robespierre il giovane sia molto più attratto dall’odore del mare che da quello del sangue. Per questo, a più riprese e sotto varie forme, Augustin denuncia gli eccessi sanguinari della Rivoluzione. Se la parola chiave per definire il maggiore dei Robespierre è intransigenza, quella per definire il minore è «indulgenza ». «Robespierre jeune comprese la necessità di sfrondare la rete periferica degli ’esagerati’, fermando la mano di coloro per i quali la Rivoluzione poteva risolversi (…) in un regolamento di conti». Ecco la dialettica fratricida che si consuma sullo sfondo di quella grande guerra fratricida che fu il Terrore. Una dialettica di cui Luzzatto ha bisogno per rivalutare la parte migliore della Rivoluzione: a cui dà nome di «Terrore benigno ». Che Augustin Robespierre seppe mirabilmente interpretare, e che proprio per questa ragione venne dimenticato, soprattutto da una «storiografia neo-liberale» smaniosa di «identificare nel giacobinismo il monolite originario del totalitarismo». Un’idea, quest’ultima, che anche Albert Camus considerava fuorviante tanto da scrivere: «Alla rivoluzione giacobina che cercava d’instaurare la religione della virtù, per fondare su di essa l’unità, succedono le rivoluzioni ciniche, siano esse di destra o di sinistra, che tenteranno di conquistare l’unità del mondo per fondare finalmente la religione dell’uomo. Tutto ciò che apparteneva a Dio sarà reso a Cesare». Sì, per Camus la differenza tra la coppia Robespierre-Saint-Just e quella formata da Hitler-Stalin si gioca tutta sulla buonafede dei primi e sul cinismo dei secondi. Il Terrore benigno quindi? Ci penso su: un ossimoro che fa paura, ma dall’indubbia potenza suggestiva. E che finalmente mi consente di vedere l’uomo: l’uomo Sergio Luzzatto, o se preferite, date le circostanze, il cittadino Sergio Luzzatto.