Paolo Salom, Corriere della Sera 26/10/09, 26 ottobre 2009
L’Africa dei trafficanti di bambini - Tutto comincia con una carezza, un sorriso e una promessa dolce come il miele: «Credimi, questo tio ti porterà in un Paradiso dove mangerai tutti i giorni e potrai anche andare a scuola»
L’Africa dei trafficanti di bambini - Tutto comincia con una carezza, un sorriso e una promessa dolce come il miele: «Credimi, questo tio ti porterà in un Paradiso dove mangerai tutti i giorni e potrai anche andare a scuola». Il suadente tio (zio in portoghese), tuttavia, ricevuto un «sì» entusiasta dall’intera famiglia, mostrerà di lì a poco il suo volto di Mangiafuoco. Rinchiuso il bambino, o la bambina, in una «casa di raccolta» nella città più vicina, lo venderà per un pugno di denaro a un altro tio che non avrà più bisogno di fingere una parvenza di umanità: «Stai buono, altrimenti non vedrai mai più la tua famiglia». Ecco, in sintesi, come si svolge il primo passaggio di un fenomeno che sta stravolgendo la geografia sociale di gran parte dell’Africa australe: il traffico dei minori, costola non meno remunerativa del più vasto contrabbando di esseri umani verso l’unico Paese dell’area che fa da calamita per questo commercio, il Sudafrica. Si fa presto a fare due conti. Se un adulto, impiegato in una ordinata tenuta del Mpumalanga (ex Transvaal), può rendere poche decine di dollari – e magari percepire un salario – una catorzinha , una «vergine quattordicenne », sfruttata in un bordello di Johannesburg o Pretoria, può valere anche mille dollari al giorno in cambio del solo sostentamento. Una miniera d’oro se consideriamo che il Pil pro capite del poverissimo Mozambico, pur con un’economia in crescita (4,3%), non supera i 500 dollari l’anno. L’ex colonia portoghese è oggi luogo d’origine della tratta e «corridoio» privilegiato per raccogliere e trasportare migliaia di esseri umani oltre frontiera, verso il nuovo Eldorado africano benedetto da imponenti investimenti in vista dei Mondiali di calcio del prossimo anno, un volano anche per le organizzazioni criminali. «I trafficanti – dice al Corriere Margarida Guitunga, direttore dell’ong Santac – sono gli emissari di una rete internazionale in mano a mafie potenti, il cui giro d’affari è secondo solo a quello della droga e della compravendita di armi. I bambini, oltre che in Mozambico, sono rapiti o acquistati in Zimbabwe, Ruanda, Burundi e altri Paesi dell’Africa australe. Tutti comunque prima o poi passano di qui». Fare una stima di questo traffico è molto difficile in un Paese la cui priorità è, in primo luogo, uscire dal sottosviluppo. Non esistono statistiche ufficiali: una legge anti- traffico di esseri umani è in vigore solo da gennaio, mentre chi si occupa di contrastare questo fenomeno non ha altri mezzi se non la propria buona volontà. Per questo, a partire dal «Maputo Consensus», conferenza che per prima, due anni fa, ha affrontato il problema del traffico di esseri umani, con particolare attenzione ai bambini, sono sorte a decine le ong locali che ora affiancano le organizzazioni internazionali come Save the Children e Unicef. Terre des Hommes Italia, la cui missione è diretta a Maputo dall’energico Samuele Silva, 26 anni, è in prima fila nell’impresa di fotografare quanto sta accadendo. «Su 21 milioni di mozambicani – ci dice Silva – la metà hanno da 0 a 18 anni. Le potenziali vittime dei trafficanti sono otto milioni di bambini in età scolare». Quanti di loro finiscono effettivamente in questa orrenda rete? Qualche statistica, per quanto ruvida, esiste. Spiega Ilundi Polónia Cabral, direttore del programma anti-traffico di Save the Children: «Ogni settimana 300 clandestini mozambicani vengono riportati dalla polizia sudafricana alla frontiera di Ressano Garçia. Di questi, circa il 20 per cento, cioè 60, sono bambini tra i 5 e i 16 anni non accompagnati da un adulto di riferimento. In dodici mesi fanno oltre tremila. Ma non è che la punta di un iceberg». Quelli che ritornano sui machimbombo (autobus) sono pochi fortunati. La maggioranza dei ragazzini di entrambi i sessi che ogni anno scompaiono nel solo Mozambico finiscono in un buco nero. Quanti potrebbero essere? «Nessuno lo sa esattamente – dice ancora Margarida Guitunga ”. Una cifra sensata è compresa fra tre e dieci volte il numero di quelli che sono ritrovati». Ovvero tra 10 e 30 mila. Come è possibile una simile tratta degli innocenti? «Innanzitutto – concordano Margarida Guitunga e suor Jakeline Danette, missionaria scalabriniana del Cemirde ( Comissão Episcopal para os Migrantes, Refugiados e Deslocados de Moçambique ) è una questione sociale e culturale». Questa: il Mozambico è un Paese essenzialmente agricolo. La parte più sviluppata è il Sud, ovvero la regione a ridosso del Sudafrica. Il resto è fatto di poche città e molta campagna, un territorio immenso costellato di villaggi miseri quanto isolati, senza elettricità o acqua corrente. L’unica «ricchezza» sono i bambini: fino a dieci per famiglia. Dove per «famiglia» si intende un clan allargato ai parenti vicini e lontani che considerano i figli cosa di tutti. Molto spesso, inoltre, sono le donne – povere e analfabete – a pensare al sostentamento di tutte queste bocche perché i loro mariti sono lontani, chi per lavoro chi perché è usanza per i maschi adulti scomparire di casa e vagare di città in città. In questo contesto il lavoro minorile fa anch’esso parte della tradizione. Le famiglie benestanti di Maputo molto spesso accolgono in casa bambine e bambini dai 6 anni in su per dare loro in gestione le cure domestiche o degli infanti. un tio, o più frequentemente una tia, cioè una persona in qualche modo legata al clan, a proporre «una vita migliore » nella capitale. Qualche volta è davvero così. Altre no. Di frequente i bambini «ceduti volentieri» a questi intermediari finiscono insieme ad altri rapiti per la strada o comprati, come fossero schiavi. Tutti hanno un destino simile: a seconda dell’età (dai 6 ai 16-18 anni) possono ritrovarsi in Sudafrica in un bordello, in un campo a raccogliere pomodori, in una miniera o a servizio in qualche famiglia. Altri ancora, i meno fortunati di tutti, possono incontrare un destino orribile ma non meno reale: essere uccisi e fatti a pezzi dai trafficanti di organi destinati alla magia nera dei curandeiros e dei feitiçeiros che ancora godono di grande credito in questa parte dell’Africa. «Noi facciamo il possibile», dice sconsolato l’ispettore Tomé Castro Gabriel, capo della Brigada anti-trafico della polizia di Maputo accogliendoci nel suo ufficio, una stanza spoglia con un piccolo banco al posto della scrivania: non un telefono, non un computer. «Non abbiamo neanche un archivio ma il governo ha fiducia in noi e noi faremo di tutto per fermare i trafficanti». I Mondiali incombono. La lotta è solo all’inizio. _______________________________________________________________ Nel centro che protegge i «meninos da rua» Carlos emerge dal dormitorio con il balzo di una gazzella. Ha 17 anni e gli occhi profondi di chi ha già visto di cosa sono capaci gli uomini. Ma non è arrabbiato con il mondo. Sarà che da cinque anni frequenta la scuola e il suo orizzonte è cambiato: non più i confini invalicabili di una fattoria-prigione ma i muri e i banchi di un liceo sudafricano. «Quest’anno ho la maturità – dice – poi voglio frequentare un corso per disegnatore grafico». Lo studio è il suo riscatto: da quando è stato accolto nel rifugio «Amazing Grace », quattro baracche circondate da un recinto e un orto nella periferia polverosa di Malelane, cinquanta chilometri dalla frontiera tra Sudafrica e Mozambico, la vita è tornata a sorridergli. Carlos è stato fortunato. Lo sa, lo sa bene. Forse per questo continua a ridere, a dondolarsi sulle gambe, a guardare con ammirazione il suo benefattore, Vuzi Ndukuya, 26 anni, uno dei responsabili del centro che ospita 50 bambini e ragazzi, dai sei mesi ai 18 anni. «Sono stato rapito – racconta Carlos – quando avevo 12 anni, a Maputo. Mi è capitato quello che capita a molti: un ’amico’ più grande, di cui mi fidavo, mi ha convinto a seguire degli uomini che portavano i bambini come me in un mondo di meraviglie e pancia piena tutti i giorni. Passata la frontiera, invece, mi sono ritrovato schiavo». Come Pinocchio, Carlos il menino da rua ( bambino di strada) poteva finire i suoi giorni trasformato in un asino da soma. Ma non deve sorprendere che si sia fidato a salire su un chapa , un pulmino, insieme ad altri bambini e adulti di cui non sapeva nulla. I sogni dei ragazzi come lui, ancora oggi, sono fatti di cibo e speranze primarie: non è difficile abbandonare una casa dove si convive con altri dieci dallo stomaco semivuoto. Come scrive il mozambicano bianco Mia Couto nel romanzo Terra sonnambula, «quando la fame morde ci fa diventare bestie feroci». Chiarisce Carlos: «Di me si occupava la mia matrigna. Mio padre era morto e la sua seconda moglie non era proprio, come si dice, una donna affettuosa». Dunque, via, lontano. I trafficanti non hanno grossi problemi per attraversare le frontiere africane. Spesso ci vuole una bella mancia. Altre volte sono gli stessi poliziotti che dirigono gli affari, oppure basta passare in uno dei tanti buchi che costellano i reticolati. Così Carlos si è ritrovato in una fattoria sudafricana. Ordinata, grande, anzi: Salvato Il 17enne Carlos (a sinistra) con Vuzi, 26 anni, uno dei responsabili del centro immensa. «Non ho mai visto il padrone – racconta ”. So che era un bianco. Ma il nostro mondo era confinato a un tugurio dove dormivamo in sei per terra. E al campo che ogni giorno dall’alba al tramonto dovevamo ripulire da tronchi, sterpi, sassi e materiali vari per prepararlo all’aratura. Le cose erano chiare: io e gli altri eravamo schiavi. Chi non lavorava, veniva picchiato e affamato». Coraggioso o forse solo incapace di prefigurare i pericoli, Carlos dopo tre mesi si aggrega a quattro ragazzi più grandicelli per tentare una fuga. Un azzardo: non avevano la minima idea di dove si trovavano, il primo villaggio era a giorni di cammino. «Siamo partiti di notte: nessuno di noi poteva immaginare di resistere ancora in quelle condizioni», dice ancora Carlos. Dopo tre giorni incontra un tassista, una persona per bene che conosce il centro fondato negli anni Novanta da Grace Mashaba. Per il fuggitivo è il ritorno alla vita ma non alla casa. Non ha documenti né voglia di rientrare in una famiglia che mal lo sopporta: «Forse, dopo l’università tornerò nel mio Paese, il Mozambico. Per ora sto bene qui». Una storia a lieto fine. Altre lo sono meno. Come quella delle tre catorzinhas convinte da una donna, tia Diana, a seguirla in Sudafrica per imparare a fare le parrucchiere e trasformate in prostitute dopo giorni di violenza. O Sarah, una diciannovenne portata da tia Joyce in un ristorante di Johannesburg con la promessa di un lavoro. Stuprata e minacciata, Sarah ha vissuto in un incubo per due anni, fino a quando il suo sfruttatore non è stato arrestato per droga. «Vicende come queste – dice Marija Nikolovska dello Iom (International Organization for Migration) – sono solo un’idea, quella che emerge alle cronache, di una realtà spaventosa che coinvolge migliaia di esseri umani».