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 2009  ottobre 24 Sabato calendario

IL SUDAFRICA NEL PALLONE


«Le multinazionali compiono crimini contro l’umanità: bisogna cambiare le regole economiche, servono politici santi per fermare la corruzione». L’Africa sprona l’Onu a «non svilire i nostri valori con i suoi piani» mentre i mali del continente (dall’Aids al fanatismo religioso) si diffondono «in tutto il mondo». E all’Occidente, che finora ha molto preso e poco dato, chiede di trattarla «con rispetto e dignità», di intervenire con urgenza su un debito che sta «uccidendo i bambini», di isolare i mercanti di morte. «La Chiesa non è seconda a nessuno nella lotta contro il virus Hiv e nella cura dei malati», rivendica il messaggio finale del Sinodo dei vescovi, «in accordo con Benedetto XVI, amico autentico degli africani». L’Aids «non sarà battuto con la distribuzione di profilattici, bensì con la castità e la fedeltà».

Dal Sinodo sull’Africa esce una Chiesa impegnata in prima persona nella costruzione di società libere e democratiche, dove le donne contino di più, i minori siano rispettati, le ricchezze distribuite in modo più equo, le armi tacciano e i preti siano «celibi e lontani dai beni materiali». La crisi economica ha messo in luce «il bisogno di un radicale cambiamento di regole», che significa interventi sul «debito che pesa sull’Africa». Il Sinodo si appella ai «grandi poteri del mondo». L’Africa «da tempo reclama un cambiamento nell’ordine economico, ma sarebbe una tragedia se le modifiche fossero fatte solo negli interessi dei ricchi». Con un monito alle multinazionali a cessare «la devastazione criminale dell’ambiente per l’ingordo sfruttamento delle risorse naturali» e le manovre per «fomentare guerre, ottenere profitti rapidi nel caos, al prezzo di vite umane e sangue».

Insomma, «Africa, alzati e cammina», nell’auspicio che «sempre più cattolici possano assumere incarichi pubblici e mostrare comportamenti coerenti». Un obiettivo osteggiato da un fanatismo religioso che corre di pari passo con un’ intensificazione del dialogo ad altri livelli. Certe nazioni «per legge proibiscono ai loro cittadini di abbracciare il cristianesimo», privandoli «del diritto umano fondamentale di decidere liberamente il proprio credo», e distorcendo il senso della fede. Ma, «dirette e guidate in modo appropriato», le religioni sono «una grande forza di bene, specialmente per la pace e la riconciliazione». Il 60% degli africani è «under 25», la Chiesa deve tenerli «lontani dalle sètte e dalle violenze».

Sono le donne il motore della macchina organizzativa del Mondiale, ben 73 sui 196 membri dello staff, ma quel che più conta il 37% occupa una posizione apicale. La trentottenne Nomfanelo Magwentshu (foto) è il direttore operativo del Comitato: «Abbiamo una capacità organizzativa più spiccata rispetto agli uomini. La nostra presenza in questo progetto non è negoziabile». Anche perché le quote rosa esistono da quando la fine dell’apartheid e le prime elezioni democratiche hanno rivelato all’African National Congress una verità inoppugnabile: la maggioranza del corpo elettorale era declinata al femminile.

Da Soweto al cuore dei Mondiali, alle 6 di ogni mattina Kgotso Mokatsanyane monta sul minibus e va ad aggiungere qualche metro cubo di acciaio al granitico orgoglio sudafricano. uno dei ventimila operai impegnati nella costruzione del Soccer City, lo stadio che ospiterà la partita inaugurale e la finale della Coppa del Mondo di calcio, alle propaggini della township. soprattutto un testimonial perfetto, tant’è che la patinata rivista della Fifa gli dedica la copertina. «Questo stadio significa molto per il Sudafrica e l’Africa.
Abbiamo anche noi raggiunto l’eccellenza». Mediamente in cambio di 1.500-2000 rand al mese, intorno ai 200 euro, per quanto le stime ufficiali raccontino di paghe di 20 rand all’ora, all’incirca quattromila rand al mese. C’è sempre un buco nero, nei passaggi tra ditte appaltatrici e subappaltatrici, e dopo qualche sciopero gli operai che non vengono intervistati nelle riviste ufficiali hanno smesso di ficcarci il naso. Si accontentano di un Mondiale che dà lavoro e per ora non semina croci, se è vero che al Soccer City 1 milione e 700 mila turni non avrebbero prodotto un solo infortunio. Il Sudafrica e la Fifa si rincorrono a colpi di spot. Sepp Blatter, il padrone del pallone, ipoteca gli spazi pubblicitari; Jacob Zuma, il presidente del Sudafrica, nel nome di un evento mai visto sul continente, cerca di risollevare la propria immagine politica.

Baraccopoli da reinventare
Il maquillage sudafricano parte dalle «shanty town», le distese di baracche di lamiera che punteggiano le strade di collegamento tra gli aeroporti e il cuore delle metropoli. Ci raccontano che qui trova domicilio la bassa ma dignitosa manovalanza, costretta a emigrare dall’entroterra per un impiego, e non i disperati senza ritorno delle favelas brasiliane. Ma nemmeno l’ombra di un futuribile riscatto sociale renderebbe presentabile a tifosi, turisti e media questa massa informe. Il mondo entrerebbe in Sudafrica con un pugno nello stomaco. Motivo per cui il processo di sostituzione delle baraccopoli con l’edilizia popolare, cubi multicolori in muratura, ha subito un decisiva accelerazione, alla periferia di Johannesburg come in quella di Cape Town. Si è partiti da lontano, dal ”94, ma forse si arriverà a qualcosa, servizi sanitari compresi.

Le vittime dell’ordine pubblico
Molto si muove, non tutto si rimuove. I dati resi noti dall’ICI, un osservatorio indipendente sulle violazioni dei diritti civili, riportano ai tempi delle stragi perpetrate dal regime razzista. Cambia la polizia, allora bianca, adesso soprattutto di neri, non il numero impressionante delle sue vittime: 556 sospetti morti ammazzati tra aprile 2008 e lo stesso mese nel 2009. Nel 1976 erano stati 653 e nel disgraziato 1985, all’alba di uno stato d’emergenza che sarebbe durato un lustro, 763. Nel frattempo l’apartheid non agita più le masse ma si continua a sparare e soprattutto a uccidere. «Non incoraggiamo gli agenti al grilletto facile ma ricordo che nell’ultimo anno 109 poliziotti sono caduti in servizio».

La statistica del portavoce della polizia di Stato, Naidoo Vishnu, origini indiane, prelude a una conclusione inequivocabile: «Dobbiamo proteggere noi stessi e soprattutto lanciare un messaggio chiaro ai criminali: in questa società non c’è posto per loro». A maggior ragione se la società in questione è impegnata a ospitare i Mondiali e a fugare l’immagine di Paese pericoloso, in cui la sicurezza fai da te esercita sull’ospite un effetto per niente rassicurante. Il pallone fornisce una copertura plausibile alla stretta poliziesca, anche senza cadere negli eccessi dialettici di Susan Shabangu, ministro delle Risorse Minerarie: «Dovete uccidere i bastardi che minacciano la comunità». In un summit di quindici giorni fa con i vertici della polizia, Zuma ha evitato toni pulp, non il piglio del comandante in capo.

La corruzione che non muore
A sette mesi dai Mondiali, la nazionale dei Bafana Bafana ha liquidato il ct brasiliano Santana per palese inettitudine e richiamato il suo connazionale Parreira. Qualche mese prima, il governo aveva cominciato l’epurazione di funzionari e alti dirigenti coinvolti in malversazioni. Palese corruzione. Qualche esempio? Il portavoce dell’African National Congress, il partito maggioritario, il capo delle compagnie aeree sudafricane, il più alto dirigente della Land Bank, il direttore generale del ministero dell’ambiente. C’erano molti dubbi che Zuma, costretto in passato a difendersi da analoghe accuse, riuscisse a tradurre in fatti le promesse elettorali. Invece ai Mondiali si presenterà con la patente del moralizzatore, levando Blatter dall’imbarazzo di una convivenza compromettente. Secondo il segretario generale dell’ANC, Gwede Mantashe, nei primi cento giorni della sua presidenza sono cadute più teste di burocrati che nei dieci anni del predecessore, Thabo Mbeki. Poco importa che tra la popolazione i sondaggi rivelino una sfiducia diffusa nell’integrità dei funzionari. La testa non puzza e il pesce non fa notizia.