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 2009  ottobre 24 Sabato calendario

ASPETTANDO ET, PER VOCE ARANCIO

di Americo Bonanni

Lo chiamano ”Segnale Wow!”, si tratta di una trasmissione radio ricevuta il 15 agosto 1977 dal radiotelescopio dell’Università dell’Ohio, in quel momento puntato verso la costellazione del Sagittario. Durò 72 secondi, e quando l’astronomo Jerry Ehman vide il foglio uscito dalla stampante capì che c’era qualcosa di strano: le caratteristiche del segnale erano proprio quelle che ci si potrebbe attendere da una trasmissione proveniente da una civiltà extraterrestre. Così scrisse quel ”wow” proprio sullo stesso pezzo di carta.

Quella trasmissione non si è mai ripetuta. Nessun radiotelescopio ha mai più captato qualcosa di simile, e probabilmente si trattò di una qualche interferenza mai chiarita. Ma questo non ha certo scoraggiato ciò che secondo molti scienziati è la ricerca più importante che l’umanità possa intraprendere: altre forme di vita, soprattutto altre intelligenze nell’universo. In poche parole: l’esobiologia da un lato, la Seti (Search for Extraterrestrial Intelligence) dall’altro.

Francis Crick, Nobel per la medicina nel 1962 per aver scoperto la struttura a elica del Dna, ha sostenuto che la vita sulla Terra sarebbe arrivata «non grazie a un intervento divino bensì portata da un’astronave lanciata da una superciviltà scomparsa da tempo».

Esobiologia, o bioastronomia: il campo che abbraccia diverse discipline scientifiche nello sforzo di capire come sia nata la vita sulla Terra e come questo processo possa essersi svolto anche su altri pianeti.

Il nostro Sistema solare offre poche e selezionate speranze. Marte, prima di tutto. Un’atmosfera, per quanto tenue, ce l’ha. Non è molto freddo (in alcuni punti all’equatore si arriva persino al di sopra dello zero) e, soprattutto, ci sono prove evidenti che in passato avesse laghi, fiumi, forse oceani. A partire dalle sonde Viking degli anni Settanta, non c’è missione diretta verso Marte che non preveda esperimenti di ricerca della vita. Anzi è diventata il motivo principale della sua esplorazione.

Con Marte abbiamo un appuntamento fisso: ogni due anni, per via del gioco delle orbite, possiamo lanciare una missione. La più ambiziosa in arrivo è quella del 2016, non a caso chiamata ”exomars”. Un vero laboratorio automatico mobile che costerà all’Agenzia spaziale europea (Esa) 850 milioni di euro (in origine dovevano essere un miliardo e mezzo). Sarà capace di analizzare il terreno alla ricerca di vita, presente o passata.

Un altro candidato è il satellite di Giove Europa, con il suo gigantesco strato di acqua ghiacciata che lo riveste. La filosofia è sempre uguale: seguire l’acqua per cercare la vita. Ma una missione su questo corpo celeste non è ancora stata progettata. Titano, satellite di Saturno, è stato raggiunto dalla sonda europea Huygens, componente della missione Cassini, realizzata congiuntamente da Esa e Nasa. Al prezzo totale di 3,27 miliardi di dollari, questa impresa ha confermato come Titano somigli ad una ”giovane Terra”, con abbondanza di metano ed altri composti da cui potrebbe avere origine la vita.

Fino ad oggi, però, le delusioni sono state all’ordine del giorno. Neanche un batterio è saltato fuori. Eppure sarebbe una scoperta decisiva: trovare vita extraterrestre su questi mondi, praticamente sulla porta di casa nostra, significherebbe concludere che la vita è dappertutto nell’universo. Ecco il perché dell’accanimento da parte degli scienziati.

Sempre che su Marte non finiamo per trovare sì batteri, ma quelli di casa nostra. Potremmo averceli portati noi con le prime sonde, russe e americane, che vi sono scese. Per evitare ulteriori guai, ora tutte le missioni destinate a scendere su Marte sono rigorosamente sterilizzate secondo un protocollo internazionale di ”protezione planetaria”. In altri termini, non vogliamo contaminare gli altri mondi con roba terrestre.

Ma ci sentiremmo meno soli se trovassimo un batterio o un’alga microscopica su Marte? Probabilmente no. Per la maggior parte delle persone la ricerca vera è un’altra: non la vita generica, ma l’intelligenza. Esseri con i quali comunicare. Il Sistema solare è fuori gioco: alieni non ce ne sono da queste parti. Ecco allora che entra in gioco la Seti.

«Sarebbe meraviglioso poter comunicare con loro [gli alieni, ndr], ma non che venissero sulla Terra. Con civiltà più evolute finiremmo nel loro zoo. Per fortuna le distanze ci proteggono» (Margherita Hack).

Un articolo di due fisici, Philip Morrison e Giuseppe Cocconi, sulla rivista Nature nel 1959. Un giovane radioastronomo, Frank Drake, che lo stesso anno comincia a porsi domande. E’ cominciata così la strana avventura dei cacciatori di alieni. A partire da un punto fermo: che gli extraterrestri riescano a superare con astronavi le enormi distanze tra le stelle è qualcosa di difficilmente concepibile. I più veloci oggetti costruiti dall’uomo, attualmente le sonde Voyager, ci metterebbero qualche decina di migliaia di anni per raggiungere la stella più vicina. E anche una tecnologia molto più progredita, capace di velocità per noi inimmaginabili, andrebbe a sbattere il muso contro un muro invalicabile: la velocità della luce.

Visite ”a domicilio” sembrano così escluse, a meno di non pensare ad astronavi non solo capaci di avvicinarsi alla velocità della luce, ma con equipaggi dalla vita così lunga da passare decenni, se non secoli o millenni, in viaggio, e solo per raggiungere le stelle più vicine.

E allora la risposta è nel lavoro del nostro vecchio Marconi: le onde radio. Una civiltà abbastanza avanzata potrebbe cominciare a trasmettere intenzionalmente per far conoscere la propria esistenza. Basta ascoltare. Gli strumenti ci sono già: i radiotelescopi. Ma quale frequenza scegliere tra le miliardi possibili? Cocconi, Morrison e Drake arrivarono alla stessa conclusione: 1.420 megahertz, la frequenza dell’atomo di idrogeno, la sostanza più abbondante dell’universo. Una specie di ”zona franca” dello spettro radio dove le varie civiltà potrebbero incontrarsi.

Fu Drake a fare la prima mossa usando il radiotelescopio di Green Bank, in West Virginia. Con appena 2.000 dollari di spesa supplementare avviò il progetto Ozma. Subito dopo, durante una piccola conferenza con poco più di dieci scienziati partecipanti, Drake formulò la sua celebre equazione per il calcolo delle probabilità dell’esistenza di civiltà extraterrestri nella nostra galassia.

E i piccoli uomini verdi (Lgm nella sigla inglese) fecero nel frattempo una effimera comparsa, quando nel 1967 la studentessa Jocelyn Bell individuò un segnale radio preciso e pulsante. Sembrava troppo perfetto per poter essere di origine naturale, e si guadagnò il nome in codice, appunto, di Lgm. L’entusiasmo durò qualche mese, poi arrivò una delusione, ma anche una scoperta da premio Nobel (che però andò al suo capo, Antony Hewish): alieni no, ma avevano individuato un nuovo oggetto celeste: le pulsar.

«Sono stata rapita da un Ufo, che mi ha portato su Venere: è un posto molto bello e tutto verde» (Miyuki Hatoyama, moglie del premier giapponese Yukio Hatoyama, in un libro dato alle stampe alcuni mesi fa).

Gli anni Settanta videro una serie di iniziative, sempre limitate a poche stelle. Anche la Russia entrò in gioco con qualche timido tentativo guidato dal radioastronomo Iosif Shklovskii. E ci fu anche la prima ”chiamata interstellare” da parte nostra, con il celebre messaggio di Arecibo inviato verso l’ammasso globulare M13. Senza dimenticare i ”messaggi in bottiglia” lanciati in quegli anni a bordo delle sonde Pioneer 10 e 11 e Voyager 1 e 2.

Poi scese in campo la Nasa, spinta dall’astronomo Carl Sagan, uno dei partecipanti al convegno di Green Bank. Un programma di ricerca impressionante, con l’ascolto simultaneo di venti milioni di canali radio. 60 milioni di dollari spesi in tutto per l’avvio delle operazioni, un budget annuale che toccò i 13 milioni di dollari nel 1991, e poi una fine improvvisa quando nel ”93 il Congresso americano decise di tagliare i fondi.

Da allora il grosso della ricerca di intelligenze extraterrestri è nelle mani di fondazioni private. Il Seti Institute ereditò il vecchio programma Nasa creando, con un bilancio di quattro milioni di dollari l’anno, il suo progetto Phoenix sotto la guida di Jill Tarter, l’astronoma che ha ispirato il personaggio di Ellie Arroway nel film Contact.

Paul Allen, cofondatore della Microsoft assieme a Bill Gates, ha firmato un assegno da 25 milioni di dollari per la costruzione dell’Allen telescope array, la prima struttura dedicata unicamente alla ricerca di segnali extraterrestri. Una volta completato, sarà formato da 350 parabole di sei metri di diametro. Per ora ne funzionano 42.

La caccia è ancora aperta insomma. Molti altri progetti sono in corso, tra cui il Serendip, giunto alla quarta versione, senza dimenticare il ”casalingo” SETI@home che ha messo al lavoro milioni di personal computer nelle case di tutto il mondo.

Le speranze che qualcosa ci sia lì fuori sono balzate in alto negli ultimi anni, con la scoperta crescente di pianeti extrasolari, quelli che orbitano attorno ad altre stelle. Ad agosto, anzi, abbiamo già mandato messaggi verso uno di essi, Gliese 581d, con il progetto ”Hello from Earth”.

Ma se riceviamo un segnale alieno che facciamo? Ci hanno già pensato. Esiste infatti una specie di protocollo: la Dichiarazione di Principio sulle attività successive al rilevamento di intelligenze extraterrestri.

Kary Mullis, Nobel per la chimica nel 1993 per la scoperta della reazione a catena della polimerasi, ha raccontato nel suo libro Ballando nudi nel campo della mente di essere stato rapito per alcune ore dagli alieni nel 1985, in un bosco della contea di Mendocino, in California.

In tutto questo scenario, gli Ufo sono un capitolo a parte. La stragrande maggioranza dei ricercatori che si occupano di Seti o di esobiologia è drastica: la ricerca di intelligenze aliene è rigorosamente scientifica, e quindi i fenomeni devono essere provati, ripetibili e verificabili da tutti. Gli avvistamenti di oggetti volanti, frammentari, senza conferme e soprattutto senza ripetizioni verificabili, rientrano in una categoria a sé.

Seth Shostak, del Seti institute: «Dal punto di vista dei ricercatori coinvolti nella Seti il fenomeno Ufo non è scienza. Se pensassi che ci fosse l’uno per cento di probabilità che fosse vero, spenderei il 100% del mio tempo a lavorarci sopra. Gli scienziati non hanno paura di seguire idee radicalmente nuove. Non appena hai per le mani un minimo di evidenze scientifiche, un fiume di ricerche si apre. Questo non lo sto vedendo nel caso degli Ufo».