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 2009  ottobre 23 Venerdì calendario

SALVARE IL MONDO MANGIANDO GLI SCARTI DEI NEGOZI


Qual è la grande emergenza del nostro tempo? Rispondere subito: uno, due, tre. Il cambiamento del clima? La fame nel mondo? No. Cioè sì. Insomma, un po’di tutto. Già perché il vero crimine dell’uomo nel XXI secolo è lo spreco del cibo. E ogni cosa è collegata. Tonnellate e tonnellate d’alimenti perfettamente commestibili, soprattutto nei Paesi industrializzati, passano infatti dal supermercato alla discarica senza che nessuno ci trovi niente da ridire. Però un miliardo di persone soffre la fame, le foreste vengono abbattute per far spazio a nuove coltivazioni e l’atmosfera, di conseguenza, s’ingrassa inutilmente di CO2. Meno male che il trentaduenne britannico Tristram Stuart se n’è accorto e che, per denunciare questa follia, ha scritto un libro: «Waste», sprechi. Subito osannato dalla critica del Regno Unito come uno dei volumi più importanti dell’anno, in arrivo in Italia nei prossimi giorni.
«Questo è uno di quei libri che tutti dovrebbero leggere», ha sentenziato l’Independent. «Politici, burocrati, ristoratori, e chiunque possieda una cucina. «Waste» potrebbe cambiare per sempre il modo in cui trattiamo il cibo». Il punto è semplice. «In quest’industria alimentare globalizzata – scrive Stuart – quasi tutto quello che mangiamo, dalle banane al manzo allevato vicino casa, è collegato al sistema dell’agricoltura mondiale: la richiesta di cibo in una parte del mondo stimola la nascita di campi a migliaia di chilometri di distanza». Questo significa ettari di foresta amazzonica che se ne vanno in fumo per far posto a monoculture di soia, oltre che estinzione di molte specie e alterazione del clima. E tutto inutilmente, visto che, come segnalano le Nazioni Unite, lo sfruttamento intensivo delle terre coltivate nell’arco del XXI secolo porterà a una riduzione produttiva del 25 per cento. L’uomo, insomma, non solo inquinerà di più, ma mangerà pure di meno. In tutto questo – e qui sta il vero «j’accuse» di Stuart – la filiera alimentare mondiale, grandi catene in testa, arriva a scartare il 30-40 per cento del cibo prodotto. Creando così un doppio danno: da una parte si toglie il mangiare ai bisognosi e dall’altra si riempiono le discariche di alimenti. «Che marcendo – nota Stuart – producono metano: un gas serra 21 volte più potente della CO2». Ridurre gli sprechi serve dunque – anche – a evitare il riscaldamento del pianeta.
Tristran – che è al suo secondo best-seller – queste cose non solo le scrive, ma le mette in pratica. Da oltre dieci anni, da quando era studente a Cambridge, si nutre grazie agli scarti di negozi e supermercati. Fa insomma parte del movimento «Freeganism», che attraverso questo tipo d’alimentazione estrema protesta appunto contro gli sprechi. E proprio di sprechi si tratta, visto che Tristran si limita a raccogliere cibo buono, sano, ma scartato dalla catena produttiva e distributiva: piatti pronti preparati in eccesso, verdure che non rientrano nella misura standard, pane o yogurt di prossima scadenza. Una protesta silenziosa e coerente nata dal fatto che, a soffrire della sperequazione del sistema, non sono solo gli abitanti dei Paesi poveri. «Negli Usa – spiega Stuart – circa il 50% del cibo prodotto viene buttato. In Gran Bretagna ogni anno si producono 20 milioni di tonnellate di scarti. Eppure quattro milioni di britannici non hanno accesso a una dieta decente, 35 milioni di americani non possono contare su cibo sicuro, e nell’Ue si calcola che ci siano 43 milioni di persone a rischio malnutrizione». Una tragedia silenziosa che, oltre a danneggiare uomini, donne, bambini e pianeta, è una pazzia pure a livello economico.
«Dove gli scarti sono stati tagliati – attacca Stuart, che per scrivere il suo libro è stato in Europa, Russia, Asia centrale, Pakistan, India, Cina, Corea del Sud e Giappone – i margini di profitto sono aumentati. I contadini hanno raddoppiato il loro reddito immettendo sul mercato prodotti che prima venivano scartati, i produttori sono riusciti a risparmiare il 20% dei loro costi semplicemente eliminando gli sprechi, e i rivenditori hanno sbaragliato la concorrenza grazie all’efficienza. In generale, ridurre la pressione sulle risorse alimentari mondiali porterebbe a una stabilizzazione dei prezzi e migliorerebbe la condizione dei poveri, che dipendono dalla fluttuazione dei mercati». Va da sé, poi, che distribuire il «surplus dei supermercati tra chi ne ha bisogno» sarebbe meglio che «buttarlo in discarica».
Ma il nocciolo della questione non è far beneficenza. E’ correggere un modello produttivo ed economico dannoso. «Si parla dei danni creati dai biocarburanti», dice Stuart. Certo, l’impennata della loro domanda «ha portato ad un aumento dei prezzi del cibo con punte del 70% e il risultato è stato la crisi alimentare del 2008». «Eppure – conclude – la quantità di cereali impiegata per produrre i biofuel è meno della metà di quella sprecata ogni anno nel mondo».