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 2009  ottobre 29 Giovedì calendario

FENOMENOLOGIA DELLA PALLOTTOLA


Proiettile cercasi. Matteo Mezzadri, coordinatore di un circolo del Pd, l’uomo che sul suo Facebook ha invocato almeno una pallottola da conficcare in testa a Silvio Berlusconi, è l’ultimo soldatino dell’eterna guerra civile italiana. Sgamato, ha chiesto scusa. S’è dimesso dal partito. Ha avuto il suo quarto d’ora di notorietà. Ma fa parte del copione.
Proiettili offresi. Non c’è stato lieto fine perchè poi Mezzadri non ha accettato l’invito rivoltogli da Sandro Bondi, quello di guardarselo da vicino l’oggetto del suo odio. Insomma, un maturo (sebbene giovane) dirigente politico non è come quello che un giorno, a piazza Navona, tirò un cavalletto in testa al Cavaliere. Quella volta Berlusconi lo invitò a casa il lanciatore, giusto per disinnescare la guerra civile. Ma questa volta Mezzadri ha detto no: non sia mai che Berlusconi lo seduca. Non sia mai un happy end.
Proiettili volano, ma gli è che l’Italia è ancora quella dei guelfi e ghibellini.
E’ ancora spuma di taverna, quella stessa che nell’aprile del 1945 così faceva scrivere a un Indro Montanelli sopravvissuto alle pallottole: «Una cosa è la Germania, esce di scena dalla guerra come dal crepuscolo degli dei. Un’altra cosa è da noi: piazzale Loreto è un regolamento di conti consumato tra compari di taverna».
Sono le giornate della ricostruzione. Nasce Il Borghese, il settimanale di Leo Longanesi che davanti alle giornate della piccola Italia non può che annotare: «Sono un carciofino sott’odio».
La mattanza in piazza è il nostro fiore all’occhiello. Fedele Confalonieri, alla viglia dell’attuale stagione, con il ritorno di Berlusconi al governo, ebbe a dirlo: «Temo un altro piazzale Loreto».
Questi anni di fango assomigliano sempre di più agli anni di piombo e la strisciante guerra fratricida diventa più acuta in epoca di bipolarismo: i puri e gli impuri, i buoni e i cattivi hanno confini più chiari. E la migliore Italia possibile soccombe di fronte alla satrapia berlusconiana. Manca perfino la libertà di stampa, in tutto il mondo rimbalza l’emergenza democratica e la guerra civile che trasferisce nella memoria i conflitti aggiorna il proprio capro espiatorio: dal capoccione al berluscone.
Proiettili in cerca di autore. Il Corriere della sera, affidandosi a un pezzo di pregiata argenteria qual è Claudio Magris, così scolpisce il tempo attuale: «Questo populismo è una gelatinosa totalità sociale, che distrugge alcuni valori fondamentali, ogni sentimento del lecito e dell’illecito, del rapporto tra il bene dell’individuo e il bene comune».
Da cosa nasce cosa. Scrive ancora Magris: «L’insofferenza crescente per la legge che persegue i reati e la limitazione pel potere della magistratura che li persegue esprimono il torvo segno di una vita senza legge o con meno legge possibile, ossia di una giungla». Da cosa è nata cosa: l’Italia migliore, di cui Magris è smagliante rappresentante, ha in odio l’Italia peggiore, quella del popolo e dei suoi simboli, siano essi Padre Pio, Totò o le vongole. O Berlusconi. E’ sempre valida la lezione del Mondo, il settimanale di Mario Pannunzio, ostile all’Italia «alle vongole»: c’è sempre un cane cui raddrizzare le gambe.
I proiettili segnano la traiettoria dell’eterna Italia fratricida. Fu un’inchiesta sull’antifascismo molto documentata di Marina Valensise, pubblicata sul Foglio nell’estate del 2000, a porre per la prima volta la questione delle origini ideologiche dell’odio nell’Italia contemporanea: l’antifascismo militante vissuto come dovere etico, il perseguimento della virtù civile quale tratto identitario dell’Italia migliore, più che del comunismo, è prerogativa dell’azionismo.
Sono le alchimie di Torino nate intorno ai padri della patria, gli Alessandro Galante Garrone e i Norberto Bobbio, a fabbricare le catene dell’intransigenza, sono le filiazioni di questa che oggi orchestrano intorno all’estraneità di un Berlusconi l’irriducibilità a ogni regola, l’idea che sia solo un abusivo nella cittadella delle istituzioni meritevoli, al limite, di una condanna, se non di un vero e proprio esorcismo.
E’ il 29 aprile 1975: il consiglio comunale di Milano è riunito a Palazzo Marino. L’ordine del giorno prevede la discussione di varie delibere di giunta quando, improvvisamente, arriva la notizia della morte di Sergio Ramelli. Muore dopo un’agonia ch si trascina dal 13 marzo. Si tratta di un giovane militante del Fronte della gioventù, l’organizzazione studentesca del Msi, sprangato a seguito di un processo proletario istruito nella scuola dove il ragazzo viene accusato di essere un fascista. E’ una seduta di routine quella del 29 aprile, ma la notizia della morte di un fascista dà così grande gioia alla Milano civile e democratica al punto che l’assemblea, con larga parte del pubblico, esplode in un applauso.
Il sindaco è Aldo Aniasi, socialista, eroe della Resistenza. Si gode la scena. Applaudono i democristiani e con loro tutti i moderati tenuti sotto scopa nel clima di soggezione culturale. Applaudono ovviamente i cronisti, gli intellettuali, gli scrittori e tutte «le bottane industriali» (giusto per citare il marinaio Gennarino Carunchio di Travolti da un insolito destino…). Gli unici a non battere le mani (oltre alla pattuglia missina sopraffatta da urla e fischi) sono i consiglieri del Pci: sono stati sempre seri in tema di rivoluzione. L’odio è solo un divertimento borghese.
L’Italia degli anni Settanta conosce il piombo e un unico comandamento: «Uccidere un fascista non è reato». L’assunto determina poi una scala decrescente di bersagli. Fascista è il commissario, è la città che nel 1972 mette a morte Luigi Calabresi è quella delle buone letture, quella che si ritrova a fiancheggiare l’emancipazione del proletariato nell’incendio ideologico dell’odio.
L’invenzione della guerra civile è un abito del conformismo. Ma l’odio elevato a categoria politica (la trasformazione dell’avversario in un nemico la cui eliminazione fisica è, di per sè, un dovere civico) non deriva dal centralismo democratico comunista, piuttosto da un ambito protetto e loffio: quello delle università, dei giornali e delle case editrici. Ci vorrebbe un vero e proprio studio antropologico per catalogare le facce e i destini di quanti, in un’orrenda giornata di Milano, accompagnavano con la lazzi e sputi la vedova Calabresi mentre si accingeva al riconoscimento della salma del marito all’obitorio. Si rischierebbe di scoprire l’album dell’Italia migliore.