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 2009  ottobre 21 Mercoledì calendario

MA I LABORATORI «MADE IN CHINA» FANNO CONCORRENZA SLEALE A NOI


La giornata di un imprenditore italiano ligio alle regole (e ce ne sono) comincia proprio con quello che non vorrebbe fare. Laddove l’istinto lo porterebbe di slancio ad accendere i macchinari ed iniziare a produrre, la realtà lo richiama ad uno snervante slalom fra imponenti tomi di leggi, regolamenti, decreti, circolàri e disposizioni europee. Il commercialista telefona più spesso della fidanzata ricordando fatture, registri, contributi.
Il sindacalista staziona fuori dalla porta con il dito puntato pronto a strillare se viene torto un capello ad un dipendente, anche se costui in orario di lavoro avesse impiantato una bisca clandestina. L’utile viene cancellato da tasse, imposte, balzelli spesso illogici e slegati agli effettivi profitti. Il prodotto poi viene passato al microscopio e deve sottostare ad una fila di standard europei, che definiscono con precisione dai micron minimi del metallo nelle cromature alle curvature tollerabili dei cetrioli (anche se a dir la verità pare che da qualche mese i cetrioli possano nuovamente essere storti). Ebbene, se dopo tutto questo calvario il prodotto del nostro imprenditore si trova sullo scaffale con un altro, prodotto analogo ma realizzato da cinesi (ma potrebbero essere anche indiani o piacentini, poco importa) nel capannone di fianco, senza regole, standard, tasse, contributi e quindi proposto a metà prezzo, magari con la scritta «made in Italy» beffardamente in evidenza, direi che il desiderio di chiudere tutto può ben essere compreso.Le regole devono valere per tutti, anche se sembrano (o sono) stupide, altrimentila partita non vale neppure la pena di giocarla.
Non sembra decisiva l’obiezione di invocare le differenze culturali: se un americano vuol giocare a pallone in Italia non può rinviare con una mazza da baseball, ne stendere l’attaccante con un blocco stile football «perché è abituato così».
Se questo elementare principio vale per i giochi, a maggior ragione deve valere per una cosa seria quale è l’attività produttiva e più ancora per ciò che attiene alle regole minime di cultura civica e socialità. E’ tuttavia molto vero che in Europa e in Italia spesso ci comportiamo in modo sovranamente masochistico, autoinfliggendoci infiniti lacci e pastoie, prestando quindi agevolmente il fianco alla concorrenza deregolata sia interna illegale che esterna.
E’ possibile che in questo risultato vi sia la firma del lassismo dei nostri europarlamentari, spesso più occupati in sterili polemiche su beghe domestiche che attivi e solidali nella tutela dell’impresa italiana. Un’Europa fittaftiente regolata fa infatti il gioco dell’industria tedesca e nordica, i cui rappresentanti a Strasburgo la farino da padroni, tale industria è infatti specializzata nella meccanica di precisione e nell’alta tecnologia e trova nell’aderenza a minuziosi standard una forma di implicita tutela.
Prodotti più semplici e tipici della produzione italiana qualiun divano, una fibbia o una montatura per occhiali però non sono paragonabili ad una turbina da reattore: in questi casi mille regole incidono solo sul prezzo senza decisivi benefici sulla qualità. L’unico appiglio è quel piccolo marchio «made in Italy» che implica un concetto molto più profondo di una semplice connotazione geografica e deve essere difeso in ogni sede. Insomma, come per le tasse, dove il percorso virtuoso sarebbe nella parallela riduzione delle aliquote e nell’efficacia dei controlli, anche perle produzioni «clandestine» bisognerebbe agire su un doppio binario, vale a dire lo sgravio degli adempimenti per gli imprenditori onesti e l’aumento e la severità delle ispezioni per gli illegali, possibilmente regolando l’invasività del controllo sul livello di scorrettezza palesemente riscontrata.
Giustissimo prendere esempio dalle positività della deregulation, ma finché le regole ci sono vanno seguite, da tutti.