Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  ottobre 22 Giovedì calendario

L’EQUIVOCO DEL TOO BIG TO FAIL

Perché le banche sono state disposte ad assumersi rischi che si sono rivelati tanto dannosi per se stesse e per il resto dell’economia? Una delle ragioni fondamentali è che gli incentivi a gestire il rischio e accrescere la leva finanziaria sono stati distorti dal sostegno o garanzia implicita offerta dallo stato ai creditori di quelle banche giudicate «troppo importanti per fallire». Queste banche avevano la possibilità di raccogliere fondi a costi inferiorie di espandersi a ritmi superiori alle altre. Erano meno incentivate delle altre a cautelarsi dal rischio estremo. Le banche e i loro creditori sapevano che, se il loro istituto era sufficientemente importante per l’economia e per il resto del sistema finanziario, e le cose andavano male, il governo le avrebbe sempre sostenute. E avevano ragione.
Le proporzioni del sostegno offerto al settore bancario sono immani. Nel Regno Unito, la cifra, sotto forma di prestiti diretti o garantiti e di investimenti azionari, è di poco inferiore ai mille miliardi di sterline, quasi due terzi del prodotto annuo dell’intera economia. Per parafrasare un grande leader dei tempi della guerra, mai, nel campo dell’intrapresa finanziaria, così poche persone hanno dovuto così tanto denaro a così tante persone. E, si potrebbe aggiungere, fino a questo momento con pochissime riforme reali.
 difficile capire come possa esserci compatibilità fra l’esistenza di banche «troppo importanti per fallire» e il fatto che queste banche appartengono al settore privato. Incoraggiare le banche a prendersi rischi che si traducono in dividendi e remunerazioni cospicue quando le cose vanno bene, e perdite per i contribuenti quando le cose vanno male, distorce l’allocazione delle risorse e la gestione del rischio. Questoè quello che intendono gli economisti quando parlano di «azzardo morale». L’enorme supporto offerto al settore bancario in tutto il mondo, benché fosse necessario per evitare il disastro economico, ha creato forse l’azzardo morale più grande della storia. Il problema del «troppo importanti per fallire» è troppo importante per ignorarlo.
Ci sono due modi per risolvere - da un punto di vista logico - il problema. Uno è quello di accettare il fatto che certe banche sono «troppo importanti per fallire », e cercare di fare in modo che la probabilità che tali banche falliscano, e dunque la necessità che i contribuenti vengano in loro soccorso, sia estremamente bassa. L’altro è trovare un modo per consentire il fallimento di queste banche senza che ciò comporti costi inaccettabili per il resto della società. Qualunque soluzione deve rientrare in una di queste due categorie. Che cosa significa nella pratica?
Analizziamo il primo approccio.
Per ridurre la probabilità di un fallimento, i regolatori possono imporre requisiti patrimoniali a un’ampia gamma di società finanziarie, collegati ai rischi che queste società si stanno assumendo. Questo è l’approccio attuale,sostenuto dal sistema di Basilea. In sostanza, fa in modo che le banche si costruiscano un cuscinetto contro le avversità. Il secondo approccio respinge l’idea di consentire ad alcune banche di diventare «troppo importanti per fallire».Invece di chiedersi quali regole applicare e chi le debba applicare, si interroga sul perché le banche debbano essere regolamentate. Questo approccio traccia una chiara distinzione fra le diverse attività che svolgono gli istituti di credito. Il sistema bancario fornisce due servizi fondamentali al resto dell’economia: garantire alle imprese e alle famiglie un mezzo spedito per poter effettuare i pagamenti di beni e servizi, e fare da intermediario per collocare i flussi di risparmi in investimenti finanziari. Questi sono gli aspetti di interesse pubblico dell’attività bancaria, quelli per i quali abbiamo tutti un interesse comune a garantire la continuità del servizio. E per questa ragione sono di natura abbastanza diversa da alcune delle attività finanziarie più rischiose intraprese dalle banche, come la compravendita titoli in proprio.
In altri settori, separiamo quelle funzioni che per loro natura rivestono un interesse pubblico - e sono regolamentate - da quelle che possono essere lasciate senza pericoli alla disciplina del mercato. Il secondo approccio adatta queste intuizioni alla regolamentazione dell’attività bancaria. A un estremo c’è la proposta delle «banche strette», recentemente rilanciata da John Kay, che vorrebbe separare totalmente la fornitura dei servizi di pagamento dalla creazione di attività a rischio. In questo modo i depositi sono garantiti.
All’altro estremo c’è la proposta, contenuta nel rapporto del G30 di Paul Volcker, ex presidente della Federal Reserve, di separare l’attività di compravendita titoli in proprio dalla normale attività della banca.L’elemento comuneè l’obiettivo finale, cioè limitare le garanzie dello stato all’attività bancaria di interesse pubblico.
C’è chi sostiene che queste proposte siano poco pratiche. Non si capisce bene perché. La normativa prudenziale esistente distingue fra i diversi tipi di attività bancaria quando si tratta di fissare i requisiti patrimoniali. A sembrare poco pratico, però, è il sistema attuale. Chiunque proponesse di offrire garanzie pubbliche ai correntisti e agli altri creditori di una banca, e poi insinuasse che questi fondi potrebbero essere usati per finanziare attività speculative e ad alto rischio, sarebbe giudicato piuttosto ingenuo. Ma questa è la situazione attuale.
Dal discorso del Governatore della Banca d’Inghilterra alle organizzazioni imprenditoriali scozzesi (Traduzione di Fabio Galimberti)