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 2009  ottobre 22 Giovedì calendario

I VECCHI RITI DEL POTERE


«Domine, non sum dignus», biascicavano i democristiani in odore di imminente segreteria. Sulla parete della triste aula dove si riuniva il Consiglio nazionale, proprio sopra la presidenza, campeggiava un crocifisso. «Siamo tutti umili servi» pare ripetesse De Gasperi, di tutti i leader bianchi il più indiscusso. Vero è che appena eletto, il suo successore Fanfani pretese di avere sulla sua scrivania un bel campanello con cui energicamente convocava i commessi e il suo vice, Mariano Rumor.
Prima delle primarie, e cioè nei penultimi cinquant´anni, sinedri e complotti, grosso modo hanno deciso il destino della leadership - senza che i due termini fossero inconciliabili o alternativi. Vedi appunto il caso dello scudo crociato dove assumere la guida del partito era il più delle volte un rito di espiazione, di sottomissione e di dissimulazione ad alto tasso di contabilità combinatoria. «La politica è come il lotto», sosteneva del resto Antonio Gava, «l´importante è essere nei primi novanta». Dopo aver fatto tombola, il congresso ratificava.
Ma prima c´era da tener conto di mille variabili; c´era da avere una salute di ferro e una famiglia a posto; c´era da abbassare la testa davanti ai capi corrente in estenuanti "caminetti"; c´era da diventare matti persino con la matematica e la geografia: senza i voti congressuali della Sicilia, ad esempio, e prima ancora del Veneto, era impossibile diventare segretario. Moro, Rumor, Fanfani (due volte), Zaccagnini, Piccoli (due volte), Forlani (due volte), De Mita: tutti loro, prima che uomini politici, erano cabalisti del potere. Il conseguimento di quest´ultimo avveniva in un´atmosfera rarefatta che spesso si riempiva di espressioni mutuate da religione, liturgia, sacramenti, vite di santi e di papi. Nella Dc, con una certa regolarità, i leader venivano crocifissi: ma la loro resurrezione era un fenomeno abbastanza frequente, e quando accadeva la gioia pasqualina scioglieva a festa le campane del partito, e allora quel piccolo mondo di finta umiltà e misericordiosa perfidia vibrava come nessuna primaria smuoverà mai qualche partito della Seconda Repubblica.
I capi comunisti, d´altra parte, non solo erano eterni per statuto, ma erano anche un po´ sacri incarnando nel loro ruolo di direzione la Razionalità della Storia. Questo significava, grosso modo, che per procedere alla malaugurata successione occorreva che il Segretario Generale quantomeno si ammalasse. Solo la candidatura a miglior vita del vecchio leader - l´ictus di Togliatti a Yalta, l´infarto di Longo, l´ultimo comizio padovano di Berlinguer - consentiva la scelta del nuovo. Quando anche Natta ebbe un colpo, capì subito quello che lo aspettava, ma non così brutalmente.
Erano già altri tempi. Appena eletto aveva promesso: «Il compito fondante di chi dirige è quello di preparare il successore». Preparare, attenzione, non scegliere. C´erano in effetti dei predestinati. Uno era Enrico Berlinguer, di cui Pajetta scherzando, ma non troppo, ebbe a dire: «S´iscrisse giovanissimo alla direzione del Pci».
La cerimonia finale aveva luogo in un buio salone delle Botteghe Oscure, lato orientale, e da altare fungeva il lungo tavolino di formica davanti al quale si riuniva il Cc (Comitato centrale) e la Ccc (Commissione centrale di controllo). Ma prima e dietro quell´esito aveva lavorato un collegio di saggi impegnati in un reticolo di consultazioni.
Bettino Craxi fu il primo leader a prendersi il potere in un albergo, con una specie di colpo di mano, in nome della sopravvivenza del Psi e del ricambio generazionale. E poi Silvio Berlusconi, molto più semplicemente, si fece un partito a sua immagine e somiglianza.