Elena Polidori, la Repubblica 22/10/2009, 22 ottobre 2009
«MA LA PRECARIETA’ CHE CI FA PROGREDIRE»
«Il posto fisso ha senso solo nel settore privato, per le micro-aziende. E´ indispensabile nei lavori di qualità, di ricerca. Ma per il comparto pubblico no: aveva legittimazione solo a fine Ottocento». Così parla il sociologo Giuseppe De Rita, gran teorico della flessibilità.
Cos´è, un passo indietro, il suo?
«E´ un distinguo. Io per esempio, che faccio ricerca, preferisco avere intorno la stessa gente anziché ronde umane che cambiano ogni volta. Nella realtà italiana, quella delle piccole imprese di qualità e del Made in Italy, è altrettanto importante avere persone garantite in modo continuativo. Sul piano micro il posto fisso non è un disvalore e neppure una bestemmia. Ma lo è sul piano macro».
Cioè per il settore pubblico?
«Sì. Alle origini il posto fisso rappresentava una forma di garanzia del rilievo pubblico della funzione. Poi però, si è trasformato in privilegio e tutto è finito a pallino. Diciamo che sul piano macro il meccanismo della non precarietà non dà risultati».
Si spieghi meglio.
«C´è un testo del pensatore Haim Baharier secondo cui dobbiamo ricordarci che per gli ebrei c´è una festa fondamentale: è la festa delle capanna, per segnalare che bisogna vivere la vita sapendo che siamo lontani dalla sicurezza. Del resto una interpretazione talmudica dell´ultimo comandamento, invece di suonare come per noi "non desiderare la roba d´altri" suona "non desiderare la casa". Gli antichi quindi ci insegnano che dobbiamo saper convivere con la precarietà, senza certezze stabili. La precarietà è la molla che ci rende capaci di andare avanti senza restare attaccati. Al dunque, ci dà la forza. Questo scritto non a caso si intitola una capanna ci salverà».
Non è una visione un po´ romantica?
«Sarà romantica, ma è così. La precarietà non è lo tsunami. E´ ciò che devo fare sapendo che deve arrivare uno tsunami domani. C´è un´etica della responsabilità nel precariato e questo è ciò che conta. Io stesso sono un precario: se non trovo il modo di fare il mio budget annuale, chiudo. Dunque, mi rimbocco le maniche per farcela».
Crede che possano capirla i 3,5 milioni di precari italiani? Non pensa che per loro questa condizione sia solo un fantasmone che gli grava addosso?
«Si, è anche un fantasmone, ma è salutare. Lo vedo con i miei figli, a loro volta precari. Osservandoli capisco che usciranno da questa condizione con più grinta e più tigna. Dunque, saranno più forti. Se invece restano ad aspettare che qualcuno gli dia il lavoro...».
Ma la sua idea della flessibilità, dove è andata a finire?
«Molto di quello che è precario dà flessibilità. Nella flessibilità c´è precarietà (insieme al lavoro sommerso, temporaneo, al secondo lavoro, a quello straordinario). E questa non è una condanna del Cielo, ma un modo di sentire la vita. Inutile nasconderlo: la flessibilità e la precarietà sono valori, opportunità, sfide ».
Lei distingue tra privato e pubblico. Tremonti e Berlusconi non fanno differenze.
«Affari loro. Io dico la mia. Ma segnalo che il ministro fa bene a porre la questione. Egli del resto è uno dei radar più funzionali di ciò che avviene nel paese».