Corriere della Sera 21/10/09, 21 ottobre 2009
LETTERA DELL’AGRICOLTORE ETTORE RAFFA AL CORRIERE
Caro Direttore, mi chiamo Ettore Raffa e sono uno degli ex giovani (adesso ho 59 anni), che verso il 1970, mentre tutti se ne andavano in città, decise di resistere e di non partecipare alla fuga dalle campagne. Rimasi nel piccolo allevamento di vacche della mia famiglia a Terranova de’ Passerini, un paese nel cuore della pianura lodigiana, lavorando fianco a fianco con mio padre, mia madre e mia sorella. Non è stato semplice, ma siamo andati avanti. Adesso ci sono 45 animali in mungitura, produciamo 4 mila quintali di latte all’anno e in azienda lavoro io con i miei due figli, che mi danno una mano il tardo pomeriggio quando tornano dall’università. L’altra sera, mentre sistemavo alcune carte (in Italia è sempre bene conservare le carte perché non sai mai quale sorpresa la burocrazia potrebbe riservarti) ho ritrovato delle fatture degli anni Ottanta e ho visto che oggi il latte ci viene pagato come allora: tra 28 e 30 centesimi al litro. Con una differenza, le nostre spese di produzione sono salite del 50 per cento.
Carburanti, manodopera, elettricità, concimi: non c’è nulla che costi come venti anni fa. E’ rincarato tutto, compresa la razione di cibo per le mucche.
Solo il prezzo del latte che incassiamo come allevatori è rimasto uguale, mentre per andare in pareggio (precario) dovremmo arrivare almeno a 34 centesimi al litro.
E’ il mercato, direbbe qualcuno. Va bene, ma è anche la vita delle persone, aggiungo io. Ogni giorno che il buon Dio manda sulla terra lavoro per 12 ore, fra stalla e campi, senza contare un’altra ora dedicata a compilare carte e moduli. Al pomeriggio tornano i miei ragazzi, Emilio di 26 anni che sta studiando farmacia e Anna Maria di 21 anni che segue i corsi di chimica industriale a Pavia, si rimboccano le maniche e vengono ad aiutarmi, mentre sarebbe bene che potessero studiare più tranquillamente e forse anche svagarsi un po’, visto che sono giovani e ne hanno diritto. Invece ci ritroviamo fino a sera fianco a fianco a portare avanti l’azienda. Se non facessimo tutto in famiglia e avessimo anche un solo collaboratore esterno, dovremmo chiudere. Come è già successo a circa metà delle stalle lombarde: ne sopravvivono ormai circa 7 mila. Alcuni miei conoscenti, un po’ più anziani e meno in forze, sono arrivati a usare la propria pensione per pagare il dipendente e lasciare aperto l’allevamento. Ma non è che si possa andare avanti così all’infinito.
Io per altri dieci anni ho due mutui da pagare, contratti per alcuni investimenti in azienda.
Terrò duro anche per quello, in attesa di capire se i miei figli se le sentiranno di continuare o se stavolta la fuga dalle campagne sarà senza ritorno.
Fra agricoltori cerchiamo di darci una mano (con un confinante ci siamo accordati che lui mi dà il fieno a un prezzo vantaggioso e io gli fornisco il letame per ingrassare la terra), ma non può bastare. L’unica strada, per aziende medio piccole come la mia, è forse la trasformazione in proprio del latte, per avere formaggi da vendere direttamente al consumatore, magari con un piccolo punto di ristoro in cascina. Oppure, mettersi insieme ad altri allevatori, imbottigliare noi il latte e portarlo anche a quella nuova fascia di popolazione che sono gli immigrati stranieri.
Ci stiamo pensando. Intanto resistiamo. Perché?
Ma perché, come raccontano dalle mie parti, «il contadino è quel bamba che dice sempre che l’anno prossimo andrà meglio». Speriamo.