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 2009  ottobre 21 Mercoledì calendario

Il leghismo rosso di ”Report” contro gli stranieri che lavorano -  probabile che molti spettatori abbiano avvertito qualcosa di stridente nell’ultima puntata di «Report», che domenica sera ha messo sotto accusa l’arcipelago delle micro-aziende cinesi, con un’attenzione particolare alle imprese sviluppatesi a Forlì nel settore dei mobili

Il leghismo rosso di ”Report” contro gli stranieri che lavorano -  probabile che molti spettatori abbiano avvertito qualcosa di stridente nell’ultima puntata di «Report», che domenica sera ha messo sotto accusa l’arcipelago delle micro-aziende cinesi, con un’attenzione particolare alle imprese sviluppatesi a Forlì nel settore dei mobili. La cultura progressista nutre un pregiudizio favorevole nei riguardi degli immigrati e proprio in questi giorni è in atto una mobilitazione a favore degli stranieri, perché sia estesa a tutti la regolarizzazione riservata alle badanti. Il cinese è però un immigrato che non riscuote simpatie, e questo a dispetto del fatto che in genere non è mai protagonista di rapine in villa. Talora pare che gli stranieri vadano bene quando pretendono case pubbliche o altri aiuti, ma non quando lavorano e se stanno per i fatti loro. Bisogna cercare di comprenderli quando vivono di piccole attività criminali ai danni dei cittadini comuni, ma devono invece essere perseguiti con durezza se ignorano i loro «doveri di cittadinanza». Com’è noto, i cinesi lavorano come dannati. Al punto che spesso disturbano i vicini, anche piazzando laboratori illegali dove non sarebbe possibile: come sa bene chi conosce la Chinatown milanese. Poca roba, però, di fronte agli allarmi che suscitano altre etnie. Eppure a «Report» i cinesi sono finiti sotto processo perché colpevoli di condurre una concorrenza «sleale» verso quegli artigiani romagnoli che riforniscono mobilifici italiani e francesi. I cinesi lavorano certamente oltre il consentito dalle nostre norme e si muovono in larga misura retribuiti nell’illegalità. un universo che si colloca tra il grigio e il nero, ma che possiamo comprendere tenendo in considerazione che si tratta di un pezzetto di Cina trasferitosi qui da noi. La legge italiana non può accettare tutto ciò, ma lo stesso programma di Milena Gabanelli ha mostrato che si tratta di una guerra perduta in partenza. Le aziende talora vengono chiuse, salvo poi riapparire sotto altro nome. Oltre alla difficoltà di cancellare una realtà difficilmente sradicabile, c’è da aggiungere che questa piccola Cina «made in Italy» è solo l’avanguardia di un Terzo Mondo che sta scommettendo con successo su un ordine economico poco regolato e poco tassato. E se anche lo Stato riuscisse a reprimere questa illegalità per proteggere le imprese locali, non è detto che i problemi sarebbero risolti. La logica sottesa al servizio giornalistico interpretava un’Italia prigioniera dell’illusione socialdemocratica che si possa faticare poco e guadagnare tanto, senza mai perdere il lavoro e godendo di ospedali e scuole di qualità. Gli stakanovisti con gli occhi a mandorla sono accusati di mandare in frantumi questo illusorio Eden no global, ma a ben guardare è solo tale dinamismo che aiuta l’economia mondiale a reggere i colpi e tutela il nostro potere di acquisto. Per giunta, siamo sicuri che sia ragionevole pretendere di «sovietizzare» un po’ i cinesi, invece che accettare anche noi di ridurre tasse e burocrazia, così che tutti si possa tornare a competere? Molti imprenditori nostrani già ora vedono queste piccole Cine quali opportunità. Anche perché c’è comunque un universo produttivo tra Pechino, Shangai, Hong-Kong e tante altre aree dell’Asia dove la guardia di finanza italiana non è in grado di arrivare. Non si tratta di negare i problemi. inammissibile, in particolare, che vi sia chi è costretto a lavorare contro la loro volontà. Ma per capire questo mondo bisogna superare la mitologia della legalità, sapendo leggere un fenomeno complicato che - per sua natura - non può avere soluzioni semplici. Perché è ingenuo pensare che quando si attacca il lavoro cinese in Italia si sta solo condannando lo sfruttamento dei «capitalisti» cinesi, e non i loro lavoratori. Chiudere quegli stabilimenti significa mandare a spasso anche i lavoranti. E’ questo che la migliore sinistra auspica e vorrebbe?