Domenico Quirico, La stampa 20/10/2009, 20 ottobre 2009
LUIGI XIV E FU SUBITO GRANDEUR
Il 3 febbraio 1663 nessuno di loro poteva immaginare la parabola strepitosa di quel destino; in fondo erano soltanto «la piccola accademia», verbivendoli di un politico potente e geniale, Colbert, a cui piaceva darsi le arie di mecenate. C’erano Chapelain, il poeta, gli abati-savants Cassègnes e De Bourzeis e due uomini di lettere, Charpentier e Charles Perrault, sì, proprio lui, l’inventore di Pollicino e di Cappuccetto rosso.
Li aveva convocati a corte per bandire un verbo nuovo il giovane re, Luigi XIV, di cui si intravedevano le prime inequivoche meraviglie. Aveva deciso di eliminare la carica di primo ministro, ad esempio, e regnare solo, da re assoluto, assolutamente re. Le parole del re le ha tramandate proprio Perrault: «Signori, potete verificare la stima che ho di voi dal fatto che vi affido la cosa al mondo che ho più cara, la mia gloria. Sono certo che voi farete meraviglie. Io da parte mia mi sforzerò di fornirvi la materia».
Ecco, quel giorno il Sole cominciò a salire allo zenit. Con questo straordinario, metodico modernissimo piano di comunicazione. Bisognava costruire l’immagine del re, allestirne il testo e la messa in scena, coniugarne il culto al superlativo assoluto. Dalla danza alla pittura, la letteratura, la scultura, l’architettura, i giardini, le tappezzerie, la numismatica e perfino i giochi pirotecnici: tutta questa alta oreficeria intellettuale doveva servire alla gloria del re. Le feste e l’etichetta? Per la sua gloria. L’urbanizzazione e i palazzi fastosi? Per la sua gloria. Perfino il suo risveglio e il suo pranzo: per la gloria e ancora la gloria. Tutti i grandi dovevano essere arruolati in questa missione titanica, i primi ingegneri delle anime, devoti, ingegnosi, inesauribili: Le Brun, Girardon, Le Vau, Molière, Lulli, Pascal, Racine, La Fontaine, perfino il pettegolo Saint-Simon ma con la sua prosa di diamante, e la marchesa de Sévigné. Tutti a scrivere, comporre, scolpire, dipingere, edificare per far risplendere il Sole, tutti per un’unica causa. La sua. Non era un genio quel sovrano che non ha mai pronunciato la frase per cui è rimasto famoso, «lo Stato sono io». Ma aveva un talento che diventerà tutto francese, quello della messa in scena.
Per leggerne la gloria, ma anche scrutare il rovescio del palcoscenico, per fortuna di lucido marmo e non di cartapesta, bisogna visitare la mostra «Luigi XIV, l’uomo e il re» al castello di Versailles che si apre oggi al pubblico e sarà visitabile fino al 7 febbraio. Con un gigantismo che non sarebbe dispiaciuto al padrone di casa, sono 300 opere disposte su 1300 metri quadri. Ci sono tutti gli apparati scenici di un destino accuratamente costruito. Persino la corazza regalatagli dalla Repubblica di Venezia (il grande re era alto appena 1,68!). Ma anche oggetti e arredi privati, quelli del «piccolo appartamento», che riservava al suo gusto, talora assai più borghese.
E’ una mostra che adesca offrendoci l’anima più fonda e infrangibile della Francia. Perché ci sono forse tempi in cui è stata più nobile, più virtuosa, più gloriosa, anche e soprattutto più giovane. Ma mai è stata così bella come in quel Grand Siècle, il trionfo di questa bellezza riempie ancora i cuori e l’orgoglio più di cento battaglie vinte. Quella di Luigi è la Francia nel suo stato di grazia, è lo scintillio del suo genio, il tempio della sua «francité», ovvero del suo spirito. così che vuole continuare a immaginarsi, nell’epoca in cui ottenne le sue frontiere «eterne» guardate dalla cintura di ferro delle fortezze di Vauban, e in cui prese il comando della cultura universale (sostituendo l’Italia). L’Europa, oggi così riottosa e policentrica, soggiogata da quella luce andava a scuola a Versailles e imparava la lingua di Molière, non quella invadente di Shakespeare. Che nostalgia!
Ma ci sono anche grandi pennellate di ombra. Perché dietro la lunghissima vita-capolavoro, dietro le statue e le tappezzerie, ci sono le origini del mal francese, il colbertismo, quel sistema di regolamenti, di protezioni e di sovvenzioni simbolizzato allora dalle corporazioni e dalle manifatture reali. Questa religione civica di controllare tutto e di legiferare su tutto ha ben le sue origini lì, una profusione senza paragoni di testi che svelano la volontà totalizzante di una monarchia burocratica che è passata alla République. Fino alla sua quinta edizione. L’invocazione che un commerciante di Rouen, esausto, rivolse a Colbert, «signore, lasciateci fare», è ancora di attualità in questo Paese. Ma non ha mai fatto parte del vocabolario delle élites politiche. Sarkozy compreso.
Ancora: al re Sole risale la pratica di addomesticare le élites che ha fatto del «servizio pubblico» l’origine di tutti i vantaggi e di tutti i privilegi. Luigi vendeva uffici inutili, oggi si direbbe impieghi pubblici, per ricavare un po’ di denaro ma soprattutto per comprare la pace sociale. Lo hanno copiato tutti i presidenti. Nella mostra c’è un’immagine del re a 65 anni di impressionante e realistica decrepitezza: la barba non rasata, le gote segnate dal vaiolo, l’espressione corrucciata. La gloria si sfaceva torbidamente, un milione di francesi agonizzavano per la carestia (più che per l’ecatombe della prima guerra mondiale). Intanto l’Inghilterra inaugurava le due istituzioni che davano il via alla rivoluzione industriale: la banca d’Inghilterra e il consiglio di commercio. Sul letto di morte il gran re mormorò soddisfatto: «Io me ne vado, ma lo Stato resterà sempre». Aveva ragione.