Federico Fubini, Corriere economia 19/10/2009, 19 ottobre 2009
Derivati, un anno e sono tornati pericolosi- Il volume dei titoli a rischio continua a salire: nove volte il Pil del mondo
Derivati, un anno e sono tornati pericolosi- Il volume dei titoli a rischio continua a salire: nove volte il Pil del mondo. Più trasparenti? No Un derivato può aiutare un contadino del Rajastan a non andare in rovina con la siccità. Se teme di raccogliere meno grano a causa delle scarse pioggie, può firmare un contratto con una banca in cui i due soggetti si scambiano i rischi (uno swap ). Nel caso in cui cadano piogge al di sotto di una certa quantità, la banca indennizza l’agricoltore; qualora invece le piogge risultino oltre quella quantità, l’agricoltore versa alla banca una commissione per la copertura. La sindrome di Aig Il problema è che i derivati non sono sempre così semplici. Al contrario possono essere incomprensibili, distruttivi e sono in continuo aumento anche dopo la crisi alla quale hanno tanto contribuito. Chiedere a Robert Willumstad, amministratore delegato di Aig nel 2008, allora il più grande assicuratore del mondo. Willumstad rimase attonito a settembre 2008 nel realizzare che la sua azienda non sarebbe mai stata in grado di sostenere gli impegni da derivati assunti. In quel caso si trattava di cds, credit default swap , titoli che indennizzano chi li acquista in caso di insolvenza di un terzo soggetto. I manager di Aig avevano venduto molti più «cds» di quanti ne potessero finanziare, convinti che non sarebbero mai arrivate tutte quelle insolvenze allo stesso tempo. Invece c’è stato il crac Lehman. Finì che il Tesoro americano e la Federal Reserve hanno dovuto salvare Aig, e chi aveva comprato dei «cds» da Aig, con 182,5 miliardi di dollari. Da allora i derivati figurano fra i grandi imputati della crisi, con due capi d’accusa: le istituzioni finanziarie ne hanno prodotti e venduti troppi e sul volume e la natura di questi strumenti non c’è trasparenza perché sono Otc, over the counter , cioè creati e venduti bilateralmente fra privati senza passare per una Borsa e i suoi strumenti di regolamento e compensazione delle transazioni. la «sindrome di Willumstad »: il non avere la minima idea del rischio assunto, anche perché non esiste un quadro della situazione. Nessuna diminuzione Se ne dovrebbe dedurre che in risposta all’inverno nucleare del 2008 il volume dei derivati è diminuito e la trasparenza è aumentata. Invece è successo il contrario: già quadruplicato fra il 2003 e il 2008, il valore nominale dei derivati esistenti ha continuato a crescere dalla seconda metà del 2008 alla prima metà del 2009. I più diffusi, quelli sui tassi d’interesse, sono passati da un valore nominale di 403 mila miliardi nella seconda metà del 2008 a 414 mila miliardi alla fine di giugno del 2009. I «cds» sono la sola classe di derivati in calo sul 2009, ma a un valore nominale di 31.223 miliardi di dollari (circa la metà del prodotto lordo della Terra). A metà 2009 l’ammontare totale dichiarato del nominale sui derivati esistenti era a 445.312 mila miliardi di dollari (circa 300 mila miliardi di euro), più o meno nove volte più del Pil del mondo (dopo essere sceso appena solo nella seconda metà del 2008). A copertura dai rischi sul petrolio, sui tassi o sulle valute, i derivati Otc vengono usati dal 94% delle imprese dell’indice «Fortune 500», le più grandi al mondo in tutti i settori. Va detto che il «nominale» si riferisce all’ammontare dei titoli sottostanti: nel caso dei 31 mila miliardi relativi ai «cds», è il valore delle obbligazioni garantite dai derivati. In base ai modelli più usati l’esposizione netta effettiva è invece in media l’1% del nominale, cioè «appena» il 9% del Pil del mondo (metà dell’economia americana). Ma osserva l’economista di Miami Ricardo Lago: «Può anche salire al 2% e oltre nel caso di eventi come quelli del 2008». Tutto ciò dovrebbe indurre a maggiore trasparenza ma, per quanto incredibile ciò appaia, nessuno sa quanti siano davvero i derivati «Otc». I dati più freschi sono quelli dell’Isda, l’associazione di categoria dei produttori- venditori di derivati, che ogni sei mesi manda per email un questionario a un centinaio di grosse istituzioni finanziarie sulle loro attività in proposito. Le banche sono libere di rispondere o no, e dichiarare solo ciò che preferiscono. La sola cosa che interessa agli istituti, è evitare che i derivati finiscano per essere scambiati in Borsa in modo più trasparente: per loro, sarebbe la fine di un’enorme fonte di reddito.