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 2009  ottobre 19 Lunedì calendario

BORSA, 37 SPA IN CRISI FINANZIARIA


La crisi ha indebolito al punto di vista finanziario le imprese italiane: se ne parla ogni giorno. Ma mancano dati precisi e non si può valutare quanto sia effettivamente fragile la struttura dell’azienda media italiana, né quanto diffusi i rischi di dissesto. Non conoscendo l’entità del danno diventa difficile stimare tempi, costi e capitali necessari per tornare alla normalità. C’è molta aneddotica: ma il quadro di insieme fornito dai bilanci per il 2009 sarà disponibile fra quasi un anno. però possibile trarre qualche indicazione dalle società quotate. La Consob, infatti, attua un monitoraggio delle società in stato di crisi, per le quali i revisori, anche in virtù delle nuove regole contabili, hanno la responsabilità di segnalare situazioni che possano far sorgere dubbi sulla continuità aziendale. A queste società, la Consob richiede di fornire al mercato un supplemento di informazioni, su base mensile o trimestrale a seconda dei casi: le cosiddette "Richieste art. 114", dal numero dell’articolo pertinente del Tuf. Oggi sono trentanove le società quotate che rientrano in questa categoria, e che possiamo perciò definire formalmente in crisi finanziaria; alle quali bisogna aggiungere It Holding, per la quale il Tribunale ha già decretato lo stato di insolvenza, ma che ancora appartiene al listino di Borsa.
Di queste 40, due sono società di calcio (Lazio e Roma) – la solita anomalia italiana – e una è una banca, quindi un soggetto al quale è di fatto precluso il dissesto. Le rimanenti 37 sono quasi tutte imprese di medie dimensioni (194 milioni il valore medio contabile del totale dell’attivo alla vigilia della crisi), prevalentemente operanti nel settore manifatturiero (24 società su 37 appartengono ai settori prodotti per le persone e per la casa, beni e servizi industriali, tecnologia, auto e componentistica). Quindi, uno spaccato rappresentativo della tipica impresa italiana: manifatturiera e di medie dimensioni.
Trentasette società quotate in stato di crisi finanziaria sono tante o poche? Per la Borsa italiana, sono un’enormità. In totale, le società italiane quotate (escludendo il segmento Investment Companies e Aim) sono 277: di queste, 33 sono banche e assicurazioni, che in pratica non possono fallire, 22 hanno lo Stato o un Ente locale come azionista di controllo, quindi sono di fatto garantite contro il dissesto, e 3 sono società di calcio, che fanno storia a parte. Rimangono quindi 219 società quotate private. Dunque, una ogni sei è in crisi finanziaria. Ma anche se prendessimo in considerazione l’intero listino sarebbero una ogni sette. E questo senza mettere nel computo le grandi società alle prese con pesanti ristrutturazioni finanziarie, come Seat o Pirelli RE, né quelle con ristrutturazioni in corso, ma uscite di recente dalla Borsa, come Valentino o Ferretti. Se il medesimo rapporto valesse universalmente, negli Stati Uniti ci sarebbero oltre 1.000 società quotate per le quali i revisori segnalano rischi per la continuità aziendale. Roba da depressione.
Lo spaccato della Borsa è sicuramente impreciso e non esauriente. Ma rimane un chiaro indicatore di quanto grave e diffusa possa essere oggi la situazione di debolezza finanziaria delle medie imprese italiane, della quale non possiamo avere una conoscenza precisa, in quanto, essendo per la stragrande maggioranza non quotate, non hanno gli obblighi informativi di queste ultime. Ma è anche il segnale che c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato nelle motivazioni degli imprenditori italiani a quotarsi, e nei meccanismi di quotazione. Oltre a mostrare l’incapacità del nostro sistema di effettuare le ristrutturazioni aziendali in modo rapido ed efficace.
Per rendersene conto, basta analizzare la struttura finanziaria delle società quotate, subito prima l’inizio della crisi finanziaria, al culmine di una lunga fase di espansione iniziata a metà degli anni ”90. La tabella mostra come al 31 dicembre del 2006, l’ultimo anno intero di crescita prima della crisi, queste società avessero già un indebitamento eccessivo: tipicamente un rapporto di oltre tre unità di debito complessivo per ogni unità di patrimonio contabile; e una posizione finanziaria netta superiore a tre volte il margine operativo lordo, cioè un livello che per un’impresa industriale di medie dimensioni comporta quasi sempre il declassamento a junk bond (nella tabella uso la mediana perché, a differenza della media, non è influenzata dai dati estremi, e meglio rappresenta l’impresa "tipica" del campione). Dunque la crisi finanziaria ha colpito imprese già troppo indebitate, nonostante il 2006 sia stato un anno di utili record. Il dato sembrerebbe paradossale, considerando che in genere si tratta di società di recente quotazione, che teoricamente dovrebbe servire ad aumentare il capitale: metà, infatti, sono sbarcate in Borsa dopo il 2000. Ma, più che un paradosso, è la conferma di diversi studi che hanno mostrato come in Italia l’azionista di maggioranza si quota prevalentemente per far cassa senza perdere il controllo (a fine settembre la quota in mano agli azionisti di maggioranza era mediamente il 60%), sfruttando le ondate ricorrenti di euforia in Borsa, e utilizzando la maggior garanzia che i titoli azionari quotati offrono ai creditori per aumentare la leva del debito. Si va in Borsa per indebitarsi più facilmente; quella di raccogliere capitali per crescere è, almeno in Italia, una bella favola.
Sorprende inoltre che un quarto delle società oggi in crisi finanziaria, fosse in perdita anche a livello operativo già nel 2006. Evidentemente un segno dell’incapacità italiana di effettuare rapidamente le ristrutturazioni aziendali, che si trascinano per troppi anni. Diverse le ragioni. Ma una è senza dubbio la volontà degli azionisti di evitare la diluizione del controllo, unita alla disponibilità dei creditori a lasciare loro un ruolo guida nella gestione della crisi. In teoria la Borsa dovrebbe facilitare la risoluzione delle crisi aziendali attraverso fusioni, aumenti di capitale e conversioni dei debiti in azioni; tutte comportano una forte diluizione del controllo. Parmalat insegna. E invece la tabella mostra livelli di concentrazione della proprietà quasi sempre molto elevati, nonostante situazioni in cui si rischia l’insolvenza. E spiega la riluttanza ad utilizzare la nuova legge fallimentare, che doveva servire proprio ad agevolare le ristrutturazioni. Piuttosto si preferisce cambiare nome alla società (Arena già Roncadin, Bee Team già Data Service, Everel già Vemer Siber, Kr Energy già Kaitech, Yorkville Bnh già Cornell e già Innotech) sperando che questo basti a superare la crisi.
La crisi economica ha dato il colpo di grazia a società già troppo indebitate o che si trascinavano in una ristrutturazione troppo dilatata nel tempo; ma ha colpito così duramente da metterne in crisi anche altre più solide. La tabella mostra come tra il primo semestre del 2007 e il primo del 2009, sia sparito in media oltre un terzo del fatturato; per quanto le imprese abbiano reagito tagliando costi e occupazione, un tale ridimensionamento ha avuto un impatto devastante sulla redditività: anche a livello operativo (escludendo quindi ammortamenti, svalutazioni e oneri finanziari), i margini sono passati tipicamente dall’11% dei ricavi, a una perdita del 6%. Difficile stimare quanto tempo ci vorrà per recuperare il 35% del fatturato: probabilmente anni. Ma è purtroppo facile prevedere che, nonostante ci venga detto quotidianamente che il peggio è ormai alle spalle, il taglio dei costi (e dei posti di lavoro) è lungi dall’essere finito; e che la domanda di credito per finanziare il capitale di funzionamento delle imprese, e specularmente le sofferenze bancarie, sia destinato ad aumentare ancora per un bel po’.
Per quanto riguarda le aspettative degli utili e la recente euforia in Borsa, mi sembra, per l’appunto, soltanto euforia.