Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  ottobre 19 Lunedì calendario

I versetti del kamikaze poco prima dell’attentato- Nel covo dei terroristi, dove hanno «cucinato» la bomba MILANO – Sul ballatoio c’è un portoncino di legno, verniciato di verde

I versetti del kamikaze poco prima dell’attentato- Nel covo dei terroristi, dove hanno «cucinato» la bomba MILANO – Sul ballatoio c’è un portoncino di legno, verniciato di verde. Appena dentro, addossato alla parete della stanza, un vecchio divano. Proprio là, sui cuscini, era appoggiato un Corano aperto sulla «Sura della vacca», i versetti che di solito i kamikaze recitano prima di andare a farsi esplodere. Quel libro è l’ultimo segno lasciato da Mohamed Game dentro l’appartamento-«covo» al terzo piano di un palazzo in via Gulli. Davanti a quelle pagine, Game ha pregato poco dopo le 7 del mattino di lunedì scorso. Poi ha preso la cassetta degli at­trezzi imbottita di esplosivo ed è uscito. sceso per tre piani di scale e, una volta in strada, ha girato a sinistra e s’è messo a camminare. A passo normale, deve aver impiegato poco più di cinque minuti. La caserma di piazzale Perrucchetti è mol­to vicina, alla fine della strada. Seicentocinquanta metri per di­ventare uno shaid , un martire. passata una settimana dal­­l’attentato alla caserma «Santa Barbara» di Milano. Il «covo» è stato scoperto quindici ore do­po l’esplosione, alle 23 di lune­dì sera. E da quel momento è diventato il fulcro dell’indagi­ne della Digos e dei Ros. Una ca­sa protetta da una doppia por­ta: la prima, con un’intelaiatu­ra di ferro, dà su un balconci­no; da quel punto si apre poi il secondo portone. All’interno, una prima stanza fa da ingres­so e soggiorno. Qui Game e i suoi complici hanno «cucina­to » per giorni (forse settima­ne) l’esplosivo. La cucina è nel­l’angolo a sinistra: i fuochi, il la­vandino, pensili e cassetti. C’erano pentole e pentolini sul piano di lavoro e sul tavolo al centro della stanza. Recipienti più piccoli e più grandi. Sparse tra il pavimento e i ripiani, un numero imprecisato di botti­glie e flaconi: una serie prodot­ti chimici (dall’acetone ai co­smetici) che chiunque può comprare in un supermercato o in un negozio di ferramenta, ma che una cellula integralista può usare invece come reagen­ti o ingredienti per assemblare la «marmellata», l’impasto per gli ordigni. Quest’ultima opera­zione Game e i suoi complici la svolgevano tra la cucina e il ba­gno, dove gli investigatori han­no trovato un altro grosso pen­tolone nella vasca. Per ricostruire la pianta del­l’appartamento si può entrare in via Gulli e salire al quarto piano. La casa sopra a quella del «covo» ha una disposizione identica. abbandonata, con la porta distrutta, chiunque può entrare calpestando un tappeto di immondizia e vestiti strappa­ti. Oltre il soggiorno, c’è una stanza con un piccolo balcone che si affaccia sulla strada. La porta del bagno è sulla parete a sinistra. La casa, come hanno spiegato gli inquirenti, era «nel­la disponibilità» di Mamhoud Kol, l’idraulico egiziano in car­cere con l’accusa di essere il complice di Game. Personag­gio che col passare dei giorni sembra assumere un ruolo sempre più centrale in questa storia. A partire da un interro­gativo: come può un immigra­to con dieci figli, che vive in una casa occupata abusivamen­te, permettersi di lasciare un appartamento a disposizione della cellula? Kol, che di fronte ai magi­strati è rimasto in silenzio, era un vicino di casa di Game. I due abitavano in due palazzine popolari affacciate sullo stesso cortile. In questi giorni almeno un paio di inquilini hanno rac­contato alcune caratteristiche della loro amicizia: «Si vedeva­no spesso, soprattutto negli ul­timi mesi, parlottavano fitti in giardino o uscivano». Un parti­colare che oggi sembra impor­tante, perché una delle doman­de fondamentali a cui dovrà ri­spondere l’inchiesta è: chi ha convinto Game a diventare un martire? Il kamikaze della caser­ma Perrucchetti, fino a sei me­si fa, non era neppure religio­so. E negli ultimi tempi un tra­collo economico e gravi problemi di salute l’avevano portato a una profonda frustrazione. Uno dei «manuali» della jihad che circola in Internet spiega: «Se conosci qualcuno di giova­ne – uno, due o più – nel tuo quartiere, nella moschea o al­l’università, che è entusiasta (della causa, ndr ) – forma insie­me a lui (o a loro, ndr ) la cellu­la ». Due giorni fa Game, uno dei giovani del gruppo, ha com­piuto 35 anni nel suo letto d’ospedale. Kol di anni ne ha 52. Non si sa quando l’idraulico egiziano abbia visitato per l’ul­tima volta il «suo» appartamen­to nel palazzo-casbah di via Gulli. E non si sa neppure quan­ti uomini siano passati (o do­vessero passare) da quella ca­sa. Nel frigorifero c’erano però molte provviste, cibo che avrebbe potuto sfamare più di una persona per giorni. E poi c’erano le scorte di esplosivo: 40 chili del fertilizzante (lo stes­so nitrato d’ammonio usato per la bomba di Game) abban­donati in un angolo della cuci­na. E infine un’altra cassetta de­gli attrezzi, identica a quella che Mohamed Game ha fatto esplodere. La mattina del 12 ottobre il kamikaze si è svegliato alle 6 e mezza, ha recitato la preghiera dell’alba e ha fatto le abluzioni, mentre la moglie e i quattro fi­gli ancora dormivano. Intorno alle 7 è uscito da via Civitali e ha percorso circa 900 metri per arrivare al «covo». Ha preso l’ordigno e alle 7,35 era di fron­te alla caserma. Ha atteso che la Fiat Punto bianca di due mili­tari entrasse nella porta carraia e si è infilato. Due soldati gli hanno sbarrato la strada. Game si è piegato e ha tirato l’inne­sco. L’esplosione gli ha portato via una mano e gli occhi. Alle 7 e 41 è arrivata la prima telefo­nata al 113.