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 2009  ottobre 19 Lunedì calendario

«Kossiga» e la controstoria sull’Italia e il caso Moro- Nella «Versione di K» l’apertura alle ragioni della famiglia La versione di K , Kappa come ai tempi lugubri in cui sui muri si leg­geva Kossiga, è la «controstoria» d’Italia che Francesco Cossiga, assie­me a Marco Demarco, ha disegnato per raccontare da un punto di vista politicamente scorrettissimo ses­sant’anni di vicende italiane (Rai Eri-Rizzoli)

«Kossiga» e la controstoria sull’Italia e il caso Moro- Nella «Versione di K» l’apertura alle ragioni della famiglia La versione di K , Kappa come ai tempi lugubri in cui sui muri si leg­geva Kossiga, è la «controstoria» d’Italia che Francesco Cossiga, assie­me a Marco Demarco, ha disegnato per raccontare da un punto di vista politicamente scorrettissimo ses­sant’anni di vicende italiane (Rai Eri-Rizzoli). Si snodano le tappe di una storia tormentata e anzi tumul­tuosa e fitta di misteri. De Gasperi e la scelta americana. Il Pci di Palmiro Togliatti. Enrico Mattei. Stay Behind. La P2. Tangentopoli e Mani Pulite. In ogni capitolo ricordi, anno­tazioni personali, ricostruzioni di un ambiente. Anche qualche freccia av­velenata. Come quella che compare nel capitolo dedicato alla mafia e al rapporto di convivenza tra la politi­ca e Cosa Nostra: «Fu il cardinale Er­nesto Ruffini, arcivescovo di Paler­mo, a mettere in guardia la Dc. ’Se volete i voti dovete andare a cercare quelli lì’, disse. E con ’quelli lì’ in­tendeva i mafiosi». Ma è soprattutto sul «caso Moro» che la «controstoria» di Cossiga sembra offrire spunti nuovi. Se non rivelazioni inedite in grado di ribaltare il senso di quegli avvenimenti, un accento umano non scontato, una prudente apertura alle ragioni della famiglia Moro (e in particolare di Giovanni, con cui Cossiga è reduce da dolorosissimi scontri), tutto questo trasuda da queste pagine. Il rapimen­to di Moro, il massacro della sua scorta, i cinquantacinque giorni di tragedia collettiva, l’assassinio del­l’ostaggio e la sua macabra esibizio­ne a via Caetani. Per Cossiga, quel dramma del ”78 rappresenta il ricor­do di una disfatta politica, persona­le, esistenziale. Anche in questa sua «versione» conferma di aver conse­gnato da ministro dell’Interno, all’in­domani del rapimento di Moro, «due buste nelle mani di Luigi Zan­da, mio consigliere politico e poi se­natore »: «in una busta c’erano le di­missioni sul caso Moro fosse uscito vivo dalla vicenda; nell’altra nel caso fosse stato ammazzato». Comunque fosse andata, «un ministro coinvol­to in una simile vicenda non poteva rimanere al suo posto». Cossiga-Kos­siga mantenne l’impegno. Si dimise. Si inginocchiò davanti alla tomba di Moro a Torrita Tiberina. Somatizzò il suo grande dolore. Prese su di sé il fardello di una scelta, quella della fer­mezza, che avrebbe portato al sacrifi­cio di Moro. Per questo Cossiga, in tutti questi anni, ha affrontato in modo così ac­corato una disputa sul «mistero» Mo­ro destinata ad at­traversare i decen­ni sino ad oggi. Per questo non è indie­treggiato nemme­no nello scontro do­loroso con la fami­glia dello statista democristiano as­sassinato che si in­terrogava sul per­ché la Dc avesse adottato una linea che non avrebbe po­tuto non portare al­l’uccisione del suo congiunto. «A cau­sa delle sue lettere, io ho avuto una for­tissima depressio­ne ed è vero che, dopo l’uccisione di Moro, dopo le accu­se che la famiglia Moro ha lanciato implacabilmente verso di me, nel gi­ro di due mesi mi sono venuti i ca­pelli bianchi». E ancora, a proposito del «fallimento della pianificazione delle strutture di protezione» dello statista dc poi rapito: «So della pole­mica aperta dai familiari di Moro nei miei confronti, una vicenda per me assai dolorosa, ma nessuno può cre­dere che io, che a Moro devo tutto, non abbia fatto l’impossibile per pro­teggerlo ». Il Cossiga della «versione K» non deflette dalla sua posizione, non cessa di dare battaglia sulla rico­struzione di una vicenda «assai dolo­rosa ». Ma la conduce con una dispo­nibilità nei confronti della famiglia Moro finora, forse, sconosciuta. Sulla linea della fermezza e della non trattativa con le Brigate Rosse, Cossiga, beninteso, non si pente. Ma cerca di offrire una spiegazione a un comportamento, fatto proprio dalla Dc di allora, eppure così in contrasto con le premesse del cattolicesimo politico (e disperatamente richiama­te dal Moro prigioniero), e cioè che «i valori fondamentali» della vita e della persona siano «immensamen­te superiori a quella che noi chiamavamo la dignità dello Sta­to ». «La linea dell’intransigenza da parte del Pci era ormai rigorosissi­ma; mentre il governo aveva deciso di permettere alla Dc di provare trat­tative che non fossero quelle ufficia­li, tipo Croce Rossa o Amnesty Inter­national », scrive infatti Cossiga. Che rivela: «Al secondo tentativo reso pubblico, Enrico Berlinguer inviò nuovamente da me Ugo Pecchioli. Il quale non si perse in chiacchiere: ’Se il governo continua a permettere alla Dc di insistere su questa strada delle trattative con organizzazioni che comunque presuppongono co­me interlocutore un soggetto milita­re riconosciuto, noi toglieremo l’ap­poggio al governo’». Questa è la ver­sione di Francesco Kossiga, che resti­tuisce i tormenti di quei terribili giorni e confessa il «dolore» che le accuse della famiglia Moro gli han­no procurato. Non una proposta di pace. Ma almeno l’aggiunta del «fat­tore umano» per rafforzare una tre­gua nell’infinita guerra della memo­ria.