Federico Rampini, la Repubblica 19/10/2009, 19 ottobre 2009
USA, LA RIPRESA TARGATA MINIDOLLARO
Così la politica del "tasso zero" fa volare export e Wall Street
I vantaggi a breve sono sensibili, ma quella delle autori-tà americane è una scommessa azzar-data. Per ora chi ci rimette è l´Europa
NEW YORK - «Prima di tutto dobbiamo rimettere in marcia l´economia, del dollaro ci occuperemo dopo». Queste parole del segretario al Tesoro Usa non appaiono in alcun resoconto ufficiale. Tim Geithner le ha pronunciate, a porte chiuse, davanti alla presidenza della National Association of Manufacturers, equivalente americano di Confindustria. Rivelano che la frana del dollaro – ormai vicino a quota 1,50 sull´euro – non è "subìta" dall´Amministrazione Obama. E´ il risultato di una strategia deliberata. E´ l´uso della svalutazione competitiva come leva per rilanciare la crescita americana. Questo contribuisce a spiegare il pervicace attaccamento alla politica del tasso zero da parte della banca centrale, il denaro facile con cui la Federal Reserve ha ricreato le condizioni di una bolla speculativa. Il tasso zero rende gli investimenti in dollari meno appetibili che in altre valute dai rendimenti superiori; è funzionale a indebolire la moneta. Scarica così sull´Eurozona un onere non indifferente per sostenere la ripresa americana.
L´arma del dollaro debole funziona, il suo impatto è visibile. Il deficit commerciale degli Stati Uniti verso il resto del mondo era arrivato al 6% del Pil Usa nel 2006. Oggi è dimezzato, pesa solo il 3% del Pil. Come dice Drew Greenblatt presidente delle acciaierie Marlin Steel di Baltimora: «La caduta del dollaro è il vento che soffia nelle nostre vele. In Australia i miei prezzi di vendita sono scesi del 30% per effetto della svalutazione. Le esportazioni sono raddoppiate in percentuale sul mio fatturato. Mi stanno salvando».
Alla ripresa dell´export made in Usa si aggiunge un fenomeno parallelo: tutte le multinazionali americane che hanno consistenti attività all´estero, rimpatriano dei profitti sempre più "pesanti" perché fatti in euro o in yen. Questo è un ingrediente del rialzo di Wall Street. Il 40% del fatturato delle società che compongono lo Standard&Poor 500 (l´indice di Borsa più rappresentativo) è realizzato all´estero: dalla Procter & Gamble alla Walt Disney, le colonne del capitalismo americano lucrano dal dollaro debole una spinta ai loro risultati di bilancio. Lo stesso accade nel turismo: con un tasso di cambio così squilibrato gli americani viaggiano sempre meno, mentre gli europei invadono New York e Miami, Los Angeles e San Francisco. Un´altro aiuto non trascurabile visto che gli Stati Uniti hanno, dopo la Francia, la seconda industria turistica mondiale.
Per capire la natura della "ripresina" in atto nell´economia americana, un verdetto cruciale sarà fornito da questa settimana. In pochi giorni usciranno i risultati di dei colossi tecnologici (Microsoft, Apple, Texas Instruments), di alcune multinazionali rappresentative (Boeing, Caterpillar, 3M), di banche come Wells Fargo e Capital One. I primi risultati di bilancio della scorsa settimana hanno già fornito indicazioni. Dall´Alcoa alla General Electric, in aiuto alle grandi aziende americane sono intervenuti tre fattori: il dollaro debole; la tenuta dei mercati emergenti con in testa la Cina; infine la brutalità dei licenziamenti effettuati nel corso del primo semestre, con la consueta flessibilità che ha consentito al capitalismo Usa un drastico taglio dei suoi costi.
Questi fattori positivi sono ad alto rischio. L´ultimo è nevralgico: una ripresa dei profitti aziendali fondata in modo prevalente sui tagli dei costi è fragile, perché contribuisce a deprimere l´occupazione e il potere d´acquisto dei consumatori. Lo si vede anche dai conti delle banche. Quelle che sono andate meglio, come JP Morgan, hanno fatto tutti i loro profitti in attività speculative (in Borsa e sui titoli obbligazionari o derivati), mentre hanno subìto perdite nelle tradizionali attività di prestito alle famiglie e alle imprese. Una situazione malsana e inostenibile nel lungo termine.
Anche la politica del dollaro debole è una scommessa azzardata, malgrado i benefici a breve. Nell´immediato, la svalutazione corrisponde all´obiettivo proclamato da Obama al G20 di Pittsburgh: riequilibrare la crescita mondiale, ridurre le disparità fra i paesi con enormi attivi commerciali e troppi risparmi (Cina e Germania), e paesi cronicamente deficitari come l´America. Il guaio è che questo aggiustamento oggi si scarica prevalentemente sull´Europa: la Cina mantiene una sorta di aggancio tra il renminbi e il dollaro. Inoltre la svalutazione è un gioco pericoloso per un paese che ha bisogno di ispirare fiducia agli investitori stranieri, indispensabili per finanziare il suo debito pubblico. Il fabbisogno netto aggiuntivo del Tesoro Usa aumenta di 4.000 miliardi di dollari all´anno. Una vera crisi di sfiducia non è ancora in vista: i suoi segnali saranno la caduta simultanea di dollaro, Borsa, e Treasury Bond. I dirigenti americani dovranno avere l´abilità di cambiare politica un attimo prima che accada Armageddon, alzando i tassi e le tasse. Per ora non ne vogliono neppure sentir parlare. «Il dollaro dopo», come dice Geithner.