MARIA SILVIA SACCHI, CorriereEconomia, 19/10/2009, 19 ottobre 2009
ECCO DOVE PRODUCONO I BIG DELL’ITALIAN STYLE
Aldolfo Urso la definisce una settimana «finalmente decisiva». «Sono molto fiducioso – dice il vice ministro con delega per il Commercio estero – sulla presentazione di un nuovo testo di regolamento sul ’made in’ già questo venerdì 23 ottobre alla Commissione europea, con la speranza di andare al voto del Consiglio europeo entro sei mesi».
Il dibattito
Il tema cui si riferisce Urso è quello dell’etichetta di origine, che i prodotti devono obbligatoriamente avere in quasi tutto il mondo ma non in Europa. Quel «made in» che nelle ultime settimane è stato oggetto di acceso dibattito dopo la sollevazione dei «contadini del tessile», i produttori di filati e tessuti e in generale le piccole e medie imprese fornitrici della moda, che hanno messo sotto accusa le grandi griffe andate a produrre oltre confine (vedi intervista in pagina a Mario Boselli). Il movimento spontaneo – che ha raccolto il sostegno della Lega – ha spinto a intervenire la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, che domani organizza a Roma un incontro sulla tutela e la valorizzazione del made in Italy aperto dal vice presidente Paolo Zegna e concluso dalla stessa Marcegaglia.
Il documento cui si lavora in queste ore in sede europea sarà diverso da quello che l’Italia riuscì a far passare nel 2005, ma poi rimasto nel cassetto perché non si trovarono i voti per il varo definitivo. un testo più «morbido». «In quello vecchio erano previsti sia i settori che alcuni componenti dei prodotti; inoltre si introduceva l’etichetta per tutti i Paesi extra Ue – spiega Urso – Ora stiamo ragionando su ipotesi che escludano dall’obbligo alcuni Paesi, per esempio quelli del bacino del Mediterraneo a cui tiene la Francia perché le sue aziende producono molto in quell’area. Oppure sulla previsione che l’etichettatura riguardi solo il prodotto finito e non anche le sue parti. Stiamo discutendone e martedì 20 a Strasburgo incontrerò il commissario al Commercio Catherine Ashton e parteciperemo a un’assemblea dei parlamentari europei, non solo italiani, favorevoli all’introduzione del ’made in’».
Sull’indicazione di origine c’è parecchia confusione, soprattutto dopo i provvedimenti che sono usciti in Italia negli ultimi mesi. Attualmente c’è il cosiddetto «interamente italiano», che aspetta però ancora i decreti attuativi, mentre la dicitura «made in Italy», che ha origini doganali, non indica necessariamente un prodotto fatto tutto in Italia ma uno che – spiega il vice ministro ”èfatto «prevalentemente» in Italia. Si tratta di una percentuale in valore, con la conseguenza – per fare un esempio-paradosso – che un prodotto a basso costo fatto in Cina può diventare made in Italy perché contenuto in un astuccio italiano.
Nonostante parte della stampa internazionale, per esempio quella tedesca, sostenga che «tra 10 anni il made in Italy sarà ucciso dalla delocalizzazione » (ma la Germania è tra i Paesi più contrari al «made in» obbligatorio), appare evidente che la competizione tra gruppi multinazionali avvenga su tutte le aree del mondo. I marchi americani come Ralph Lauren sono da anni prodotti anche in Asia.
Altro discorso è la trasparenza.
Un consumatore ha diritto di sapere cosa acquista. Per questo Corriere Economia ha chiesto a 27 tra i principali gruppi della moda e del lusso italiano le materie prime di quali Paesi usano, dove producono e cosa scrivono sull’etichetta dei loro abiti, delle loro borse, dei loro occhiali.
La mappa
Il risultato sintetico si trova nel grafico accanto. Dalla tabella sono stati esclusi Geox e Tod’s per le risposte non complete a causa dei tempi, mentre non hanno risposto Diesel, Marcolin, Max Mara, Piquadro e Safilo per i tempi stretti, Stefanel impegnati in un’inaugurazione a Francoforte e Versace per l’assenza dell’amministratore delegato Ferraris, in Asia. Peccato perché Santo Versace, senatore Pdl e presidente della casa della Medusa, è co-firmatario del progetto di legge sulla tracciabilità dei prodotti per la quale si battono i «contadini del tessile» e il cui iter legislativo è appena iniziato.
Complessivamente il quadro che ne esce è che restano saldamente in Italia le produzioni di fascia alta e altissima, non a caso producono qui anche i marchi francesi. Parte delle seconde linee, i prodotti casual, quelli delle catene della moda oltre ad alcuni tipi di prodotti come piumini, scarpe sportive, camicie e lavorazioni particolari come i ricami (questi ultimi rigorosamente made in India) sono sempre più fuori dall’Italia. I Paesi di produzione sono l’Europa dell’Est, il Mediterraneo e l’Asia. Le aziende sottolineano come ci siano Paesi ormai specializzati in determinate lavorazioni e i processi di controllo attivati per garantire la qualità.