Michele Smargiassi, la Repubblica 18/10/2009, 18 ottobre 2009
I cechi sembrano essere gli unici d´accordo con gli anglofoni: per loro è il formaggio (sýr) che induce il sorriso
I cechi sembrano essere gli unici d´accordo con gli anglofoni: per loro è il formaggio (sýr) che induce il sorriso. Per gli ispanici invece è la patata, per i polacchi la marmellata (dzem), per i coreani il cavolo (kim chi), per i cinesi la melanzana (ch´ieh tzu), per gli svedesi l´omelette, per i finlandesi un certo pesce (muikku), per i danesi l´arancia (appelsin). Ma più o meno in tutto il restante mondo, da cent´anni la formula sciamanica della fotogenia è: Say cheese. L´inventore non è stato rintracciato, gli storici delle buone maniere lo cercano tra gli insegnanti delle scuole pubbliche di Sua Maestà Britannica attorno al 1910, fresche di riforma e da poco aperte alla novità della foto di classe. In un´epoca ancora ossessionata dallo spettro della fame, non sorprende che tutte le paroline magiche escogitate per stirare le labbra nel segno universale della felicità fossero prelevate dal lessico della dispensa. Tutto da spiegare è il perché: chi ha stabilito che il sorriso, in fotografia, è un obbligo sociale e un dovere estetico? Se sentiamo la necessità di un sorriso tecnicamente assistito, di una parolina-relais che ci faccia scattare a comando l´espressione giusta sul viso, automaticamente, anche quando di sorridere non abbiamo voglia e intenzione, un piccolo detonatore muscolare di felicità apparente, superficiale, meccanica, come gli elettrodi che il neurologo Duchenne De Boulogne applicava al viso delle sue cavie per produrre e studiare la mimica facciale, significa che non ci viene poi così spontaneo sorridere davanti all´obiettivo, che semmai ci imbarazza e ci mette a disagio. Ma ormai ci siamo abituati e non ce ne accorgiamo più. Pavloviano, incontenibile, il sorriso ci fiorisce spontaneo sulle labbra ogniqualvolta sappiamo di essere nel mirino. Al fotografo l´ordine Say cheese ormai non serve più, dopo cent´anni mandiamolo dunque in pensione, tanto sorridiamo tutti, subito, sempre, quando c´è di mezzo un clic. Anche quando c´è poco da ridere, sorridiamo lo stesso. Sorridono i carnefici del Ku Klux Klan nelle cartoline dei linciaggi, e questo ammettiamo faccia parte della loro ferocia. Sorridono però i newyorkesi qualunque nelle foto-ricordo sullo sfondo delle Twin Towers fumanti: sono le immagini più imbarazzanti di Here Is New York, la grande commovente mostra collettiva sull´11 settembre. Pose condizionate dall´abitudine alla foto turistica? Si sorride sempre, davanti ai monumenti. Ma sorride anche la cronista del giornale di provincia sullo sfondo del grattacielo maciullato, sorridono perfino i pompieri in una pausa degli scavi fra le macerie del World Trade Center. La tragedia non abolisce il fotosorriso. L´istantanea del partigiano Georges Blind sorridente davanti al plotone d´esecuzione tedesco (e al parallelo mirino del fotografo) ha turbato per anni le coscienze dei democratici francesi. Andiamo fino in fondo? Il 17 aprile 1945, nel lager di Bergen-Belsen appena liberato, davanti a mucchi di cadaveri macilenti, alla vista della fotocamera del sergente Norman Midgley, che fanno due sopravvissute? «Appena alzai il mio apparecchio, sorrisero». Stirare le labbra mentre qualcuno ci trasforma in icona è diventato un riflesso compulsivo, inconscio, istintuale. La fotografa Elsa Dorfman ricorda che ad ogni visita in clinica, la nonna malata di Alzheimer e incapace di riconoscerla si apriva nel suo migliore sorriso non appena veniva inquadrata. Ammettetelo: raccontato così, il sorriso fotografico comincia a farci paura. Non è più una cosa nostra, è una seconda natura tecnologicamente indotta e inoculata di soppiatto nel nostro set biologico di risposte emozionali. Ma quando è successo? E perché non ce ne siamo accorti? Non si sorride da sempre, nelle fotografie. Tutt´altro. Prendete la galleria del più grande fotoritrattista dell´Ottocento: Nadar. Baudelaire ti trafigge con gli occhi, Sarah Bernhardt sogna, Rossini sembra aver annusato un cattivo odore; ecco, forse solo Dumas padre accenna a una smorfietta ironica, del resto è nel suo personaggio, comunque sotto il baffo non si capisce bene. Oppure prendete l´immensa commedia umana immortalata nelle cartes de visite di Disdéri, c´è tutta la Parigi bene del Secondo Impero e nessuno accenna a un ghigno, a un´increspatura, un po´ per via della posa lunga (nessun sorriso regge mezzo minuto di immobilità), ma soprattutto timorosi d´incrinare il decoro e la rispettabilità. Perché guardando indietro, chi è che sorride nella storia della pittura? Gli ubriachi, elenca lo storico del sorriso Angus Trumble, i vagabondi, i matti, le sante in estasi erotico-religiosa, i lunatici, i freak, gli indemoniati e gli esattori delle tasse, tutti individui che non vien voglia di frequentare. Il sorriso misterioso della Gioconda forse ha inquietato generazioni di adoratori non perché fosse così misterioso, ma perché era un sorriso. Il decoro, gli alti ideali, il carattere esigono corruccio e gelida compostezza. Sorridere è umano, ma sorridere di continuo è da scemi: e in fotografia, un sorriso è eterno. Il tuo doppio continuerà a sorridere anche quando non dovrebbe. Ai giudici americani viene consigliato di non sorridere mai quando vestono la toga: potrebbero rivedersi sghignazzanti sul giornale accanto alla notizia di una condanna a morte. Dal 1941 in poi, quando la guerra cominciò a buttar male, la censura di regime stracciò implacabilmente tutti i fotoservizi Luce in cui Mussolini appariva di buon umore. Sorridere, per chi ha un potere da amministrare, è pericoloso. Persino la vera seduzione ne diffida: le cocotte delle immaginette pornografiche fin de siècle ridacchiano licenziose e allusive, ma la contessa di Castiglione, cortigiana illustre e sapiente designer della propria immagine, nei suoi estroversi album è sempre glaciale. Fino alla fine dell´Ottocento un album fotografico, quanto a gaiezza, non è meglio di uno schedario di polizia. Qualche anno fa dalla National Library of Wales riemerse il presunto "primo sorriso in fotografia", circa 1850, ma era un bambino, il piccolo William Mansell Llewelyn, figlio di industriali della chimica, e i bambini non sono tenuti a rispettare le convenzioni iconografiche. Da quando, allora, e perché siamo tornati tutti foto-bimbi? Chi chiama in causa i progressi dell´ortodonzia, con la conseguente liberazione dalla vergogna di aprire il sipario delle labbra, forse ha qualche ragione: ma dentature da esposizione esistevano anche prima. No, qualcosa di specificamente fotografico è accaduto al tramonto del secolo borghese. Qualcosa che ha convinto le masse, dice Edgar Morin, a «far affacciare l´anima alla finestra del viso». L´invenzione del fotosorriso che irrompe spazzando via ogni tabù forse è precisamente databile: 1888, l´anno in cui George Eastman commercializza la sua prima Kodak a rullo per famiglie, prezzo abbordabile ed estrema facilità d´uso. Non è l´apparecchio che produce il sorriso, sia chiaro: è l´ideologia pensata per venderlo, imposta dalla prima possente campagna pubblicitaria dell´era moderna. Se non c´è Kodak, non c´è un momento degno di essere ricordato; se non c´è Kodak, non c´è famiglia felice. Che si trasforma ovviamente nel reciproco: dove c´è Kodak, c´è felicità. La fotografia di massa, la fotografia di famiglia infatti è la fotografia dei momenti lieti, è il certificato di successo dell´american way. Nata come risorsa di marketing, diventa presto ideologia di stato: rinnegando il lugubre cipiglio di Lincoln, nel 1912 Theodore Roosevelt è il primo presidente Usa a sghignazzare a tutti denti nelle foto ufficiali, e da allora ogni presidente cura come un brand personale il suo specifico sorriso, pensate a Reagan. Say cheese dunque significa: ho raggiunto tutti i miei obbiettivi, non sono un perdente. Da quello di Feininger in giù tutti i manuali di fotografia per dilettanti raccomandano la spontaneità delle pose, «non chiedete di sorridere», vano scrupolo: senza sorriso chiunque è nudo davanti alla lente. Sorriso è vestito, maschera, bandiera. «Si rifugiano dentro la fotografia», impreca Thomas Bernhard come solo lui sa fare, «si riducono deliberatamente alla fotografia che, con una falsificazione totale, li mostra felici e belli o se non altro meno brutti e infelici». Ma se tutti sorridono, anche gli infelici, che senso ha questa finzione universale? Con la cheese revolution, con il sorriso stereotipato e obbligatorio «scompare l´ultimo contenuto individuale», dichiarava negli anni Sessanta Gisèle Freund, la fotografa allieva di Adorno, e «la fotografia diventa la parodia di un viso umano». Aveva più ragione di quanto lei stessa pensasse. Se il sorriso, facoltà squisitamente umana, è la contrazione muscolare più espressiva e sociale che la natura ci abbia donato, un segno universale di buona volontà e intenzioni pacifiche, la massificazione lo ha geneticamente modificato in modo irreversibile, almeno in fotografia. Il sorriso obbligatorio è una maschera di amichevolezza dietro cui si può nascondere perfino l´orrore. I bravi marine americani sorridono tutti, com´è doveroso quando ti fanno la foto, mentre torturano i prigionieri iracheni nelle celle di Abu Ghraib. Quei souvenir dell´orrore appartengono alla «cultura della spudoratezza», come l´ha definita Susan Sontag, ma segnano anche il capolinea di una storia lunga cent´anni: ora sappiamo che non c´è più alcuna garanzia di innocenza in un sorriso fotografico. Nel 2003, scontando una quantità di ironici commenti, il governo canadese cancellò per legge il sorriso fotografico: su passaporti e documenti, pena annullamento, solo fototessere con "espressioni neutre". Non è affatto certo che una misura del genere consenta di riconoscere meglio e arrestare qualche pericoloso terrorista ricercato. Ma almeno ci risparmia un´ipocrisia.