Giorgio Colombo, La Stampa 18/10/2009, 18 ottobre 2009
GIORGIO COLOMBO
Lombroso, malato, ha 74 anni. Il 18 ottobre 1909, la sera prima della morte, racconta la figlia Gina, «…mi disse che aveva corretta nella giornata la prefazione dello Spiritismo». Sorrise della incredulità, che sempre credeva di scoprire in noi, quando si parlava di questo argomento. «E’ un segreto che penetrerò fra poco soggiunse». C’è una reticenza in queste parole e un dubbio sulla sua ultima fatica, le Ricerche sui fenomeni ipnotici e spiritici. E con ragione. Si tratta di fenomeni che non obbediscono affatto al suo vantato metodo sperimentale: niente numeri, percentuali, statistiche. Niente fatti certi, documentati, osservabili, paragonabili, ma voci confuse, apparizioni improvvise, telepatie, suoni fastidiosi.
Nel 1886 Lombroso, insieme ad altri esperti, viene interpellato dal Consiglio Superiore di Sanità in merito al caso Donato, un belga che riscuote successo nei teatri con spettacoli di «fascinazione» ipnotica. Al teatro Scribe di Torino Donato ipnotizza in un mese non meno di 300 persone, tutti maschi, che, in trance, obbediscono ai suoi comandi. Dunque si può perdere la propria coscienza, trasformare la propria personalità, seguire la volontà di un altro. Gli spettacoli di ipnotismo in pubbliche riunioni sono vietati. Ma altre sedute ipnotiche si svolgono nel chiuso di stanze private. In una di queste, nel marzo del 1891 a Napoli, troviamo Lombroso invitato dal conte Ercole Chiaia ad un «esperimento spiritico in pieno giorno» intorno al medium Eusapia Paladino, una popolana di 37 anni, analfabeta, nota per le sue facoltà medianiche. Da quella riunione, Lombroso esce profondamente scosso. La seguirà a Genova, a Milano, a Parigi, approntando esami, misurazioni, controlli, riempiendo pagine e pagine di appunti e riflessioni. Non è solo. Gli sono vicini illustri scienziati della Society for Psychical Research. Eusapia Paladino è, per Lombroso, l’ultima figura di malata creativa. In compagnia di alcuni interlocutori, riuniti intorno a un tavolo, la medium in preda al trance isterico, come l’antico «fanciullo sacro», scatena forze misteriose. Si odono voci dimenticate, spirano venti e vapori, prendono forma anime trapassate, «materia fluidica», risuonano campanelli. «Vengono meno tutto a un tratto la legge di gravità, la legge dell’impermeabilità della materia, e cessano le regole che reggono il tempo e lo spazio». Si verifica una inconsapevole trasposizione di personalità. Lei, la povera donna che balbetta parole sconnesse, è il medium, il mezzo col quale parlano, con espressioni a loro stessi sconosciute, gli illustri professori convenuti. Si prenda l’esempio che Lombroso stesso ci offre. «L’Eusapia in stato di ubriachezza» gli promette di fargli vedere la sua mamma. «Suggestionato da quelle promesse, dopo una mezz’ora di seduta fui preso da vivissimo desiderio… e subito dopo vidi, eravamo in semioscurità, a luce rossa, staccarsi dalla tenda una figura alquanto bassa, velata, che fece il giro completo del tavolo fino a me, sussurrandomi delle parole da molti udite, non da me sordastro, tanto che io, quasi fuor di me dall’emozione, la supplicai di ripeterle ed essa ripeté: Cesar fio mio, il che, confesso subito, non era nelle sue abitudini; essa infatti, veneta, aveva l’abitudine di dirmi mio fiol …; distaccandosi poi un momento i veli dalla faccia, mi diede un bacio… Dopo quel giorno l’ombra di mia madre (ahi! troppo ombra!) ricomparve almeno 20 volte alle sedute di Eusapia quando questa era in trance, ma avvolta nel velo della tenda, appena sporgendo il capo e le mani dicendomi fiol e tesoro e baciandomi la testa e le labbra».
E’ probabile che l’Eusapia, accusata più volte di trucchi, abbia messo in scena quanto Lombroso, ritornato bambino, voleva vedere e sentire. Se anche così fosse, non faceva che rendere più esplicita la sua funzione: dar voce alle emozioni, ai desideri dei convenuti, con un ribaltamento reso possibile dalla sua figura irregolare di malata, di isterica. Quelli che si riuniscono intorno al malato per studiarlo e curarlo, sono a loro volta presi in cura dal malato. Uno scambio delle parti tra medico e paziente.
Nel centenario lombrosiano vanno considerati anche questi meno frequentati sentieri, là dove il paradigma della certezza positiva scoppia al suo interno spargendo dappertutto i suoi frammenti. Lombroso non li scarta, li raccoglie, coltiva, a suo modo, la loro produttiva diversità. Ipnotismo, nervosismo, donne isteriche e sonnambule, sedute medianiche, personalità doppie, plurime, tutto sembra inabissarsi con la Prima guerra mondiale. Oppure, forse, ha soltanto assunto altre maschere.
Il teschio di Villella
sulla scrivania
Il cranio del brigante Giuseppe Villella è il pezzo più famoso della collezione. Il primo. Cesare Lombroso eseguì l’autopsia a Pavia, nel 1864, sul corpo di un detenuto morto forse in età avanzata, e nel 1970 ne riesaminò il cranio scoprendo quella che riteneva la prova biologica della criminalità: una traccia all’interno delle ossa sulla fossetta occipitale, come nelle scimmie e in certi roditori. Sbagliava, ma fu l’inizio di una lunga avventura scientifica. Del povero Villella si sa ben poco. Era in carcere per furto e incendio. Lombroso, che conservava maschere funebri e tutti i documenti possibili sui criminali importanti, di lui non prese nulla. E alla sua vita non dedicò neppure un appunto.
Versino si ”costruì”
un vestito di stracci
Un sontuoso abito da cerimonia, bizzarro e pesantissimo (40 chili) con stivali, pantaloni, una maglia che è quasi una corazza, un berretto alto mezzo metro. Lo realizzò nel manicomio di Collegno un ricoverato, G. Versino (altro sul nome di battesimo non si sa), che era incaricato delle pulizie. Per anni e anni sfilacciò gli stracci e ne ricavò, probabilmente tessendoli con ferri da maglia o con l’uncinetto, questo incredibile costume, come se si preparasse a una parata o a una festa popolare. Per Lombroso era un reperto importante: gli interessava la genialità del suo autore in rapporto alla follia.
Per lei una perizia
e poi la condanna
Luigia Sola uccise l’amante, che secondo copione stava per sposarsi con un’altra. Lo fece di persona, in via degli Artisti. Lui si chiamava Gariglio, ebbe appena il tempo di trascinarsi davanti alla casa del futuro suocero per chiedere aiuto, poi spirò. Lombroso fu perito del tribunale, al processo conclusosi con condanna a morte e grazia. Luigia rappresentava ai suoi occhi l’amore impuro che, dedito a «relazioni carnali», «conduce al delitto». Vide nella donna l’atteggiamento tipico di quei criminali che «proibirono all’avvocato di farli passare per matti, perché preferivano la morte alla dimora in un manicomio, il che ben si spiega quando si ricordi la nota vanità di costoro».