Sergio Romano, Corriere della Sera 18/10/2009 Fulvio Pelli, Corriere della sera 19/10/2009, 18 ottobre 2009
(2 articoli) I leghisti del Ticino vorrebbero che la Confederazione reagisse allo scudo fiscale assegnando al loro Cantone quel 40% delle imposte sui 44
(2 articoli) I leghisti del Ticino vorrebbero che la Confederazione reagisse allo scudo fiscale assegnando al loro Cantone quel 40% delle imposte sui 44.000 frontalieri che Berna restituisce all’Italia e che viene distribuito ai comuni italiani di frontiera. E’ una ripicca stizzita a cui spero il governo elvetico non dia seguito. Ma è anche il segno del rabbioso malumore con cui la Svizzera sta attraversando questa fase della sua storia. I bisticci con Tremonti sono l’ultimo episodio di un processo alla Confederazione iniziato negli anni 70 e vissuto a Berna come una sorta di assedio. Per comprendere ciò che è accaduto alla Svizzera in questi anni occorre fare un passo indietro e tornare alla fine della Seconda guerra mondiale, quando la Confederazione amava considerare se stessa come la più saggia, virtuosa e fortunata delle democrazie europee. Nel 1945 gli svizzeri erano i grandi vincitori «netti» della Seconda guerra mondiale, gli unici che non avessero perduto nulla e guadagnato molto. Avevano preservato l’integrità del loro territorio, non avevano subito perdite umane e di patrimonio industriale, avevano fabbriche e banche in eccellenti condizioni di salute, tutte pronte ad approfittare della ricostruzione di un continente distrutto. Poi, improvvisamente, gli umori della Comunità internazionale sono cambiati e il loro Paese è diventato il grande imputato di alcuni processi, spesso prevenuti e ideologici. Per i sociologi progressisti, le multinazionali svizzere si sono arricchite a spese del terzo mondo e le banche hanno accolto cinicamente capitali di dubbia provenienza. Per le comunità ebraiche, quelle stesse banche hanno incamerato i depositi dei conti correnti aperti dalle vittime del genocidio, mentre le compagnie d’assicurazione hanno rifiutato di onorare le loro polizze. Per i revisionisti della storia della Seconda guerra mondiale la Svizzera ha fatto un uso opportunista della neutralità riservando un trattamento di favore al commercio tedesco e ai lingotti d’oro della Banca centrale del Terzo Reich. Per il Tesoro degli Stati Uniti e i ministri delle Finanze dell’Unione europea, è uno spregiudicato paradiso fiscale. Per Gheddafi, dopo l’arresto a Ginevra di uno dei suoi figli, è un Paese ricattabile con misure di ritorsione come la detenzione in Libia di due cittadini svizzeri. Di fronte a una tale offensiva la Confederazione si è difesa riconoscendo alcune responsabilità, installando coraggiose commissioni d’inchiesta sulle colpe di cui era accusata e creando generosi fondi di solidarietà per le vittime del genocidio. Ma quando i suoi critici hanno messo in discussione il segreto bancario, la risposta della Confederazione è stata un’ostinata battaglia di retroguardia. Neutralità e segreto bancario sono diventati la linea Maginot dietro la quale la Confederazione è decisa a resistere. Ce ne siamo accorti quando una delle sue banche maggiori (Ubs) ha aperto qualche migliaio di conti correnti agli occhi del Tesoro americano, ma le autorità della Confederazione hanno contemporaneamente invocato la difesa della sfera privata dei clienti. Temo non si siano accorti che il loro mondo, con le regole che ne hanno garantito il successo, è stato duramente scosso dall’effetto congiunto di due fattori: la globalizzazione dei servizi finanziari e la crisi del credito. La prima ha creato le condizioni per una progressiva uniformità delle regole cui devono conformarsi i più importanti servizi bancari del pianeta. Mentre la crisi del credito ha collocato tutte le banche, non soltanto quelle della Confederazione, sul banco degli imputati. Commetterebbe un errore, quindi, chi pensasse che il negoziato svizzero-americano sui conti segreti di Ubs, il contenzioso di qualche settimana fa con la Francia, lo scudo fiscale italiano o il grottesco incidente di Ginevra siano soltanto incidenti di percorso. Temo che siano invece i segnali di un crisi di credibilità che gli svizzeri, prima o dopo, dovranno affrontare. La questione, in ultima analisi, è quella della loro adesione all’Unione europea e alle sue regole: una prospettiva che molti svizzeri, suppongo, continuano a considerare incompatibile con il loro orgoglioso concetto di neutralità, ma che dovranno prima o dopo affrontare con lo straordinario buon senso e la grande concretezza di cui sono stati capaci nel corso della loro storia. Un’ultima osservazione, diretta soprattutto alla Lega ticinese. Forse sarebbe giusto ricordare che il Ticino fu per molto tempo un’area dignitosamente povera e che deve la sua straordinaria prosperità al miracolo italiano del secondo dopoguerra. Il cantone si è arricchito grazie ai nostri peccati fiscali, ma anche e soprattutto grazie al nostro sviluppo economico. Sergio Romano La lettera La fuga di fondi dall’Italia? Continuerà- Caro Direttore, sul Corriere della Sera Sergio Romano si chiede se esista un problema di credibilità della Svizzera di fronte alla comunità internazionale e cita le polemiche sorte in seguito alla decisione da parte del governo Berlusconi di introdurre lo scudo fiscale. La decisione dell’Italia è di per sé legittima anche se non può essere apprezzata da tutti, soprattutto perché, come hanno subito notato le autorità Usa, rischia di tradursi in un’amnistia anche per il reato di riciclaggio. Quello che ha però fatto impressione a noi svizzeri è l’aggressività che ha accompagnato l’introduzione delle nuove misure di amnistia: telecamere alle frontiere, autovelox fiscali, l’annuncio di agenti mandati in incognito in Svizzera a effettuare controlli e la disinformazione sulle regole che vigono nel nostro Paese; essere spiati, filmati di nascosto dallo Stato è per un cittadino elvetico inaccettabile. Questa strategia del terrore, che ha come bersaglio principalmente cittadini italiani, non è apprezzata in Svizzera. Ma c’è di più; anche altri Paesi hanno adottato misure di amnistia e mirano al rientro di capitali, ma attraverso accordi bilaterali e contatti tra le diplomazie. Non si capisce perché l’Italia, un Paese confinante e che noi riteniamo amico, abbia agito in questo caso in maniera del tutto scorretta, senza almeno una consultazione esplorativa con gli altri governi. C’è poi un aspetto sostanziale sottovalutato dal governo di Roma ed è un’analisi delle proprie responsabilità sul fenomeno dell’evasione fiscale. La fuga dei capitali non è provocata dalla Svizzera ma dal sistema fiscale italiano che spinge da sempre le aziende italiane a evadere o a trasferirsi all’estero. La mia impressione è che, quando lo scudo avrà esaurito i suoi effetti, i soldi continueranno a scappare dall’Italia; se non lo faranno verso le banche elvetiche, saranno a disposizione quelle di qualche altro Paese meno ligio nel perseguire la criminalità. Esiste in Italia un profondo problema di pressione fiscale che non si risolve individuando nella Svizzera il capro espiatorio. Ora da noi si comincia a parlare di misure ritorsive verso l’Italia in risposta alla strategia voluta dal ministro Tremonti. Anche se la Svizzera ha raramente usato strategie di ritorsione, questa volta il nervosismo e l’inquietudine verso l’Italia’ specie in Canton Ticino – sono alti. A Berna il governo è come sempre cauto, ma il ministro delle finanze Merz ha espresso stupore e preoccupazione per l’assenza di disponibilità al dialogo da parte dell’Italia. Quali misure sarebbero possibili? La Lega dei Ticinesi ha chiesto di non versare ai comuni italiani la loro quota di imposte alla fonte pagate dai frontalieri: in effetti l’accordo in vigore con l’Italia è assai più generoso, ad esempio, di quello sottoscritto con la Germania e dunque la partita potrebbe aprirsi. E altri ipotizzano più zelo dell’attuale nei controlli del transito autostradale delle merci. Non sappiamo se si passerà ai fatti, di sicuro questa volta il malcontento del Ticino è stato ben percepito a Berna: un governo non può curare i rapporti con un Paese vicino nel modo in cui lo fa l’Italia in questa circostanza. Fulvio Pelli