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 2009  ottobre 18 Domenica calendario

(2 articoli) I leghisti del Ticino vorreb­bero che la Confederazio­ne reagisse allo scudo fisca­le assegnando al loro Canto­ne quel 40% delle imposte sui 44

(2 articoli) I leghisti del Ticino vorreb­bero che la Confederazio­ne reagisse allo scudo fisca­le assegnando al loro Canto­ne quel 40% delle imposte sui 44.000 frontalieri che Berna restituisce all’Italia e che viene distribuito ai co­muni italiani di frontiera. E’ una ripicca stizzita a cui spe­ro il governo elvetico non dia seguito. Ma è anche il se­gno del rabbioso malumore con cui la Svizzera sta attra­versando questa fase della sua storia. I bisticci con Tre­monti sono l’ultimo episo­dio di un processo alla Con­federazione iniziato negli anni 70 e vissuto a Berna co­me una sorta di assedio. Per comprendere ciò che è ac­caduto alla Svizzera in questi an­ni occorre fare un passo indietro e tornare alla fi­ne della Seconda guerra mondiale, quando la Con­federazione amava consi­derare se stessa come la più saggia, virtuosa e for­tunata delle democrazie europee. Nel 1945 gli sviz­zeri erano i grandi vincito­ri «netti» della Seconda guerra mondiale, gli unici che non avessero perduto nulla e guadagnato molto. Avevano preservato l’integri­tà del loro territorio, non ave­vano subito perdite umane e di patrimonio industriale, ave­vano fabbriche e banche in ec­cellenti condizioni di salute, tutte pronte ad approfittare del­la ricostruzione di un continen­te distrutto. Poi, improvvisamente, gli umori della Comunità interna­zionale sono cambiati e il loro Paese è diventato il grande im­putato di alcuni processi, spes­so prevenuti e ideologici. Per i sociologi progressisti, le multi­nazionali svizzere si sono arric­chite a spese del terzo mondo e le banche hanno accolto cinica­mente capitali di dubbia prove­nienza. Per le comunità ebrai­che, quelle stesse banche hanno incamerato i depositi dei conti correnti aperti dalle vittime del genocidio, mentre le compa­gnie d’assicurazione hanno rifiu­tato di onorare le loro polizze. Per i revisionisti della storia della Seconda guerra mondiale la Svizzera ha fatto un uso op­portunista della neutralità ri­servando un trattamento di fa­vore al commercio tedesco e ai lingotti d’oro della Banca cen­trale del Terzo Reich. Per il Te­soro degli Stati Uniti e i mini­stri delle Finanze dell’Unione europea, è uno spregiudicato paradiso fiscale. Per Gheddafi, dopo l’arresto a Ginevra di uno dei suoi figli, è un Paese ricatta­bile con misure di ritorsione co­me la detenzione in Libia di due cittadini svizzeri. Di fronte a una tale offensiva la Confederazione si è difesa ri­conoscendo alcune responsa­bilità, installando coraggiose commissioni d’inchiesta sulle colpe di cui era accusata e cre­ando generosi fondi di solida­rietà per le vittime del geno­cidio. Ma quando i suoi criti­ci hanno messo in discussio­ne il segreto bancario, la ri­sposta della Confederazio­ne è stata un’ostinata batta­glia di retroguardia. Neu­tralità e segreto bancario sono diventati la linea Ma­ginot dietro la quale la Confede­razione è decisa a resistere. Ce ne siamo accorti quando una delle sue banche maggiori (Ubs) ha aperto qualche migliaio di conti correnti agli occhi del Te­soro americano, ma le autorità della Confederazione hanno con­temporaneamente invocato la difesa della sfera privata dei clienti. Temo non si siano accor­ti che il loro mondo, con le rego­le che ne hanno garantito il suc­cesso, è stato duramente scosso dall’effetto congiunto di due fat­tori: la globalizzazione dei servi­zi finanziari e la crisi del credito. La prima ha creato le condizioni per una progressiva uniformità delle regole cui devono confor­marsi i più importanti servizi bancari del pianeta. Mentre la crisi del credito ha collocato tut­te le banche, non soltanto quel­le della Confederazione, sul ban­co degli imputati. Commettereb­be un errore, quindi, chi pensas­se che il negoziato svizzero-ame­ricano sui conti segreti di Ubs, il contenzioso di qualche settima­na fa con la Francia, lo scudo fi­scale italiano o il grottesco inci­dente di Ginevra siano soltanto incidenti di percorso. Temo che siano invece i segnali di un crisi di credibilità che gli sviz­zeri, prima o dopo, do­vranno affrontare. La questione, in ultima ana­lisi, è quella della loro adesione all’Unione euro­pea e alle sue regole: una prospettiva che molti svizzeri, suppongo, conti­nuano a considerare in­compatibile con il loro or­goglioso concetto di neu­tralità, ma che dovranno prima o dopo affrontare con lo straor­dinario buon senso e la grande concretezza di cui sono stati ca­paci nel corso della loro storia. Un’ultima osservazione, diret­ta soprattutto alla Lega ticinese. Forse sarebbe giusto ricordare che il Ticino fu per molto tempo un’area dignitosamente povera e che deve la sua straordinaria prosperità al miracolo italiano del secondo dopoguerra. Il can­tone si è arricchito grazie ai no­stri peccati fiscali, ma anche e soprattutto grazie al nostro svi­luppo economico. Sergio Romano La lettera La fuga di fondi dall’Italia? Continuerà- Caro Direttore, sul Corriere della Sera Sergio Romano si chiede se esista un problema di credibilità della Svizzera di fronte alla comunità internazionale e cita le polemiche sorte in seguito alla decisione da parte del governo Berlusconi di introdurre lo scudo fiscale. La decisione dell’Italia è di per sé legittima anche se non può essere apprezzata da tutti, soprattutto perché, come hanno subito notato le autorità Usa, rischia di tradursi in un’amnistia anche per il reato di riciclaggio. Quello che ha però fatto impressione a noi svizzeri è l’aggressività che ha accompagnato l’introduzione delle nuove misure di amnistia: telecamere alle frontiere, autovelox fiscali, l’annuncio di agenti mandati in incognito in Svizzera a effettuare controlli e la disinformazione sulle regole che vigono nel nostro Paese; essere spiati, filmati di nascosto dallo Stato è per un cittadino elvetico inaccettabile. Questa strategia del terrore, che ha come bersaglio principalmente cittadini italiani, non è apprezzata in Svizzera. Ma c’è di più; anche altri Paesi hanno adottato misure di amnistia e mirano al rientro di capitali, ma attraverso accordi bilaterali e contatti tra le diplomazie. Non si capisce perché l’Italia, un Paese confinante e che noi riteniamo amico, abbia agito in questo caso in maniera del tutto scorretta, senza almeno una consultazione esplorativa con gli altri governi. C’è poi un aspetto sostanziale sottovalutato dal governo di Roma ed è un’analisi delle proprie responsabilità sul fenomeno dell’evasione fiscale. La fuga dei capitali non è provocata dalla Svizzera ma dal sistema fiscale italiano che spinge da sempre le aziende italiane a evadere o a trasferirsi all’estero. La mia impressione è che, quando lo scudo avrà esaurito i suoi effetti, i soldi continueranno a scappare dall’Italia; se non lo faranno verso le banche elvetiche, saranno a disposizione quelle di qualche altro Paese meno ligio nel perseguire la criminalità. Esiste in Italia un profondo problema di pressione fiscale che non si risolve individuando nella Svizzera il capro espiatorio. Ora da noi si comincia a parlare di misure ritorsive verso l’Italia in risposta alla strategia voluta dal ministro Tremonti. Anche se la Svizzera ha raramente usato strategie di ritorsione, questa volta il nervosismo e l’inquietudine verso l’Italia’ specie in Canton Ticino – sono alti. A Berna il governo è come sempre cauto, ma il ministro delle finanze Merz ha espresso stupore e preoccupazione per l’assenza di disponibilità al dialogo da parte dell’Italia. Quali misure sarebbero possibili? La Lega dei Ticinesi ha chiesto di non versare ai comuni italiani la loro quota di imposte alla fonte pagate dai frontalieri: in effetti l’accordo in vigore con l’Italia è assai più generoso, ad esempio, di quello sottoscritto con la Germania e dunque la partita potrebbe aprirsi. E altri ipotizzano più zelo dell’attuale nei controlli del transito autostradale delle merci. Non sappiamo se si passerà ai fatti, di sicuro questa volta il malcontento del Ticino è stato ben percepito a Berna: un governo non può curare i rapporti con un Paese vicino nel modo in cui lo fa l’Italia in questa circostanza. Fulvio Pelli