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 2009  ottobre 17 Sabato calendario

Il piano impossibile della mafia - Massimo Ciancimino ha raccontato ai giudici che non fu entusiasta il commento del padre, il don Vito da Corleone ex sindaco di Palermo, quando ricevette il papello - inviatogli da Riina - con l’elenco delle richieste, anzi le pretese che Cosa nostra imponeva allo Stato per far cessare le stragi

Il piano impossibile della mafia - Massimo Ciancimino ha raccontato ai giudici che non fu entusiasta il commento del padre, il don Vito da Corleone ex sindaco di Palermo, quando ricevette il papello - inviatogli da Riina - con l’elenco delle richieste, anzi le pretese che Cosa nostra imponeva allo Stato per far cessare le stragi. Don Vito apostrofò in malo modo l’autore di quel documento, così squisitamente politico e pretenzioso da risultare «irricevibile» da chi il mestiere di politico lo faceva per investitura. Ciò che chiedeva la mafia era irrealizzabile se non con la complicità di una solida maggioranza parlamentare e, ovviamente, governativa. Riforme di legge e del codice (i pentiti, la Rognoni-La Torre, i domiciliari ai detenuti ultrasettantenni), l’annullamento del carcere duro (41 bis), la revisione del maxiprocesso, la dissociazione, la carcerazione preventiva solo in flagranza di reato, benefici carcerari, insomma un vero programma politico piuttosto che la semplice richiesta di favori. Ecco, il programma politico. La vecchia abitudine della mafia a inciuciare col potere, al di là di ideologie e schieramenti. E chi, meglio di Vito Ciancimino, politico e mafioso insieme, rappresentante del gruppo criminale vincente, poteva cercare di traghettare il vecchio quieto vivere (affari, appalti, finanziamento della politica e ai boss una repressione «accettabile») sulle sponde della Nuova Repubblica? Nel foglio che accompagna il papello - «Un allegato per il mio libro», scrive don Vito - s’intuisce uno schema politico che avrebbe potuto in qualche modo favorire buoni risultati per gli amici di Cosa nostra. Ciancimino fissa in apertura i nomi di Rognoni, Mancino e del «ministro Guardasigilli» e s’intuisce che riterrebbe essenziale l’accondiscendenza dei tre ministeri competenti: Difesa, Interni e Giustizia. Ci sono stati contatti? Chi li ha ipotizzati ha dovuto registrare secche smentite. Lo scritto di Ciancimino rivela una strategia politica tesa ad alleggerire i problemi dei boss: in testa il carcere duro che don Vito ritiene possibile far abolire. Per neutralizzare le conseguenze delle condanne del maxiprocesso ipotizza il ricorso alla Corte di Strasburgo. Ma l’idea di don Vito è più complessiva: pensava a un Partito del Sud e a una «riforma della giustizia all’americana col sistema elettivo con persone superiori ai 50 anni, indipendentemente dal titolo di studio (esempio Leonardo Sciascia)». Cioè giudici eletti dal popolo non necessariamente laureati in legge. E per quelli arrestati in flagranza di reato, carcere preventivo ma «rito direttissimo». Anche don Vito, come l’anonimo autore del papello, non disdegnava il populismo annotando una strana «abolizione monopoli tabacchi» che fa il paio con la detassazione dei carburanti inserita nel documento consegnato da Ciancimino jr. Il partito del Sud. E’ anche questo un pallino della mafia e di Vito Ciancimino che fino alla fine dei suoi giorni inseguì la chimera della rinascita della Sicilia, ovviamente a modo suo, cioè rimettendo in moto la macchina degli affari. E quando s’affacciò la Seconda Repubblica tentò addirittura di arruolarsi, accorrendo al raduno di Reggio Calabria delle Leghe del Nord e del Sud. Ma anche prima, quando deflagrava il vecchio potere e il nuovo non era ancora ben definito, Cosa nostra tentava di non affogare, trattando. Una lettera anonima del giugno ”92, subito dopo la strage di Capaci, indirizzata anche a Borsellino, rivelava che la mafia chiedeva alla politica: che i latitanti più importanti «potessero regolarizzare la loro posizione»; che potessero riprendere possesso delle loro ricchezze e che le imprese mafiose si potessero reinserire nel sistema degli appalti. Si tratta solo di un anonimo ma molto di quanto prediceva è accaduto. Questo è il quadro che i magistrati dovranno rendere intelleggibile. E’ possibile che un disegno così complesso potessere essere stato «garantito» soltanto da un gruppo di ufficiali dei carabinieri? Sembra essere sott’accusa il vertice del Ros di allora. Il generale Mario Mori (che non nega i contatti con Ciancimino ma finalizzati alla cattura del vertice di Cosa nostra) è al secondo processo, dopo l’assoluzione per la mancata perquisizione del covo di Riina. Ora Agnese Borsellino chiama in causa il gen. Antonio Subranni, riferendo ai giudici i commenti poco edificanti espressi dal marito sul conto dell’ufficiale. «Non posso credere - risponde Subranni - che la signora Agnese abbia detto ciò che ho letto sui giornali. Ricordo una sua visita al comando generale, dopo la tragedia di via D’Amelio, e l’affettuosa accoglienza di tutta l’Arma. Se Borsellino avesse nutrito sospetti su me e il Ros non avrebbe accettato l’invito a pranzo dell’11 luglio, una settimana prima della morte».