Francesco Verderami, Corriere della Sera 17/10/09, 17 ottobre 2009
Il nemico in casa. La sindrome che dilania il Pd - Ha ragione Pier Luigi Bersani quando dice che «il più anti berlusconiano sarà chi manderà a casa Silvio Berlusconi»
Il nemico in casa. La sindrome che dilania il Pd - Ha ragione Pier Luigi Bersani quando dice che «il più anti berlusconiano sarà chi manderà a casa Silvio Berlusconi». Ma se nel Pd non cessa la logica del nemico in casa, l’idea cioè che l’avversario da battere è il compagno di partito, il rischio è «diventare un’involontaria quinta colonna del Cavaliere». Un timore che non appartiene solo a Follini. Perché finora la sfida per la segreteria, invece di esaltare la competizione politica e culturale «ha fatto emergere – sono parole del filosofo De Giovanni – uno scontro per bande, una sorta di guerra civile interna. Specie al Sud si avverte una perdita di etica politica: l’avversario è dentro, e viene combattuto con tutti, ma proprio tutti i mezzi. Non vedo luce, solo una lotta intestina del vecchio ceto politico». Così, mentre il premier si appresta a presentare la squadra dei candidati alle Regionali, il Pd resta bloccato fino al 25 ottobre dalla sfida per la segreteria, senza aver definito ancora le alleanze. E le primarie, invece di offrire l’immagine di un partito capace di presentare tesi innovative, hanno mostrato – secondo il sociologo Ricolfi – «timidezza e assenza di progettualità dei candidati». L’opinione è frutto di uno studio che sarà pubblicato a breve: «Dal confronto si nota che non hanno la minima idea di cosa farebbero se fossero al governo. Nei mesi scorsi, giustamente, i Democratici avevano lanciato il tema della riforma degli ammortizzatori sociali, ma hanno pensato bene di dividersi». Per il resto il Pd si mostra contraddittorio, «perché – continua Ricolfi – se è giusto criticare lo scudo fiscale, poi non si può tifare per la sanatoria delle badanti. Non esistono sanatorie buone e cattive». Ecco il motivo per cui definisce «patologica» la condizione di un partito che – come ha scritto Battista sul Corriere – non riesce a essere «polifonico », e si scaglia contro la Binetti per le sue posizioni sui temi etici. Sarà perché i dirigenti sono disabituati al confronto o perché non ci sono abituati? «Può darsi – commenta De Giovanni – che qualcosa del vecchio centralismo democratico sia rimasto nel Pd. Quella però era una cosa seria, sebbene fui tra i primi a criticarlo nel Pci». Insieme alla voglia di epurazione, sono i segni di disaffezione al progetto l’altro fatto grave. Chiamparino dice di vivere da «estraneo», Rutelli scrive un libro sul «partito mai nato», e Bettini in un saggio sull’«Anno zero» del Pd descrive il passato per azzannare il presente: «Una volta, dopo una sconfitta elettorale, si salvavano i partiti e si cambiava il gruppo dirigente. Oggi per salvare la classe dirigente si cambiano i partiti». L’assenza di tensione ai vertici si riflette anche nella base. Pagnoncelli lo racconta attraverso i suoi sondaggi: «La nascita del Pd – spiega il capo di Ipsos – aveva alimentato una forte aspettativa. Ma dopo la sconfitta elettorale sono riapparsi i vecchi mali. Non so se i dirigenti siano consci della distanza che li separa dal loro elettorato, che tuttavia si mostra per ora comprensivo. Attende l’esito delle primarie, ma per il dopo chiede scelte coraggiose: non solo una forte opposizione al governo ma anche un freno alle minoranze interne. Temi etici a parte, vuole che il partito abbia una sola voce sulla politica economica e sociale, sulla legge elettorale, sull’immigrazione». Sarà così, o la logica del «nemico in casa» continuerà a dilaniare il Pd, chiunque sarà il nuovo segretario? Perché le Regionali sono dietro l’angolo, e una sconfitta va messa nel conto. «In quel caso – sospira Macaluso – penso e spero che non si riapra la questione della leadership. Sarebbe la fine». Polito concorda con Macaluso, ma il direttore del Riformista teme il «cupio dissolvi», perché «la conflittualità interna e il sistema correntizio sopravvivranno al 25 ottobre. E se il Pd perderà le elezioni si riaccenderà lo scontro». Serve un patto tra i Democratici, per non venire ricordati come «quinta colonna» del Cavaliere.