Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 17/10/09, 17 ottobre 2009
IL LABORATORIO DEL VENETO
Dice Galan che «solo i leghisti vogliono essere governati dai leghisti e nemmeno tutti quanti» e dunque lui non la capisce la decisione del Cavaliere di cedere alla Lega la guida della Regione Veneto, non ancora ufficiale ma ormai data per scontata nonostante le assicurazioni opposte ribadite fino a pochi giorni fa. un vanesio capriccioso convinto d’esser insostituibile e aggrappato alla poltrona sulla quale è assiso da quindici anni? Se è così, è bene che Berlusconi e Bossi lo mandino a spasso: di tutto ha bisogno, la politica italiana, meno che di altri uomini della Provvidenza. Dietro l’impuntatura del governatore rischia di esserci però qualcosa di più di una cocciutaggine personale.
Il quadro, apparentemente, è chiarissimo. Di qua il Carroccio, che sa di essere assolutamente indispensabile al governo, vuole una grande regione settentrionale e il Veneto è quella in cui, per numero di sindaci, presidenti provinciali, radicamento territoriale e voti rastrellati alle ultime europee (28,4% contro il 22,7 in Lombardia e il 15,7 in Piemonte) si sente più forte. Di là Berlusconi, che via via si era adattato all’idea di dover sacrificare un governatore e oggi è un po’ più esposto dopo la bocciatura del Lodo Alfano, ha assolutamente bisogno del Senatur per far qualunque passo in tema di giustizia. E anche se era rimasto scottato l’unica volta in cui aveva accettato di puntare su un candidato comune leghista (l’Alessandra Guerra travolta da Illy in Friuli Venezia Giulia, riconquistato solo con un pidiellino) le terre serenissime sono da sempre così generose con la destra da lasciar pochi margini a brutte sorprese.
Apparentemente, però. Anche a Vicenza pareva impossibile che la destra perdesse il municipio: ha sbagliato candidato e l’ha perso. una terra strana, il Veneto. Dove alle inquietudini comuni ad altre aree del Paese e all’orgoglio (sia pure ammaccato oggi dalla crisi) per il prodigioso riscatto dopo secoli di povertà, si somma da sempre una certa diffidenza, se non qualche ostilità, verso i «foresti» che «decidono da fuori».
Come dimenticare che il Nordest ha avuto negli ultimi dieci anni, compresi Brunetta, Zaia e Sacconi, 5 ministri su 131 nei vari esecutivi di destra e di sinistra pur avendo un nono della popolazione, un settimo della ricchezza prodotta, un sesto delle industrie manifatturiere, un quinto dell’export?
Non è dunque un caso che le prime reazioni, ieri, abbiano avuto un tema dominante: dove si deciderà chi sarà il candidato della destra alle prossime regionali di marzo: a Roma, a Milano o in Veneto? Il punto non è secondario. Lo dicono le quasi mille firme raccolte in questi mesi tra i sindaci, amministratori ed elettori pidiellini in calce a una lettera che chiede al Cavaliere di lasciare le cose come stanno. Lo dice una storia di insofferenze verso non solo i romani ma anche i milanesi che, senza risalire alla battaglia di Maclodio, ha visto cicliche invocazioni al partito di tipo bavarese fin dai tempi di Toni Bisaglia e perfino rari tentativi (repressi) di rivolta interna leghista contro l’egemonia lombarda. Lo dice infine la risposta dell’Udc che in Veneto è da sempre a destra ma oggi, oltre a tuonare «col Carroccio al timone mai», lancia l’idea di un listone aperto a tutti quelli che non ci stanno. Scelta che potrebbe poi pesare sulle alleanze nel resto del Paese. Come finirà? Mah... Certo è che la Lega si trova davanti a un paradosso: non può permettersi che la scelta veneta appaia fatta a Roma. E neppure a Varese.