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 2009  ottobre 17 Sabato calendario

PARLANDO DI FLAUBERT PER DIMENTICARE LA POLITICA


Come ogni anno, quest´estate ho conversato spesso con Carlo Fruttero. Abitiamo nella stessa pineta. La nostra è, sempre, una piccola conversazione: niente verità generali, niente destini del mondo; aneddoti, ritratti di amici e di conoscenti, avventure, minimi eventi, e libri, molti libri, di rado libri di oggi. Mai, o quasi mai, politica. Fruttero nutre un´acuta avversione verso tutto ciò che è grande, o verso ciò che finge e ostenta di essere grande. Pensa che soltanto se riconosciamo la nostra mediocrità, riusciremo a scrivere e a fare qualcosa di decoroso. Con grazia, trova il tono minore. Se è ironico – mai aggressivo – lo fa per impedire alla letteratura e alla conversazione di starnazzare con ali false verso una grandezza che non esiste.
Non esce mai di casa, sfiora a malapena i giornali, non ascolta la televisione, non ha informazioni particolari, non consulta statistiche. Eppure sa tutto quello che accade oggi nel mondo. Sa come parlano i ragazzi di dodici o quindici anni, le bariste di Torino, di Milano e di Grosseto, come si esprimono i banchieri, i barbieri, le parrucchiere, le prostitute, i carabinieri, le signore della buona società a Torino o a Firenze, i politici di Cosenza o di Ascoli Piceno.
Coglie le sfumature minime e quasi invisibili di ogni evento e di ogni carattere, senza averne esperienza diretta: come se per una virtù incomparabile, portasse tutto il mondo nella testa. Credo che sia la virtù fondamentale di uno scrittore.
Qualche giorno fa, l´ho trovato diverso: non più mestamente ironico, ma disperato, furibondo, collerico. Non l´avevo mai visto così. E dopo pochi minuti, trascorsi senza che la letteratura placasse e raddolcisse la sua anima, mi ha detto con voce alterata: «Siamo alla fine. Questo è l´otto settembre. Non vedi?». E se io gli obbiettavo che il re e la regina non erano fuggiti a Brindisi, che i generali non avevano abbandonato a loro stessi un milione di soldati, e che non si vedevano ancora i carri armati nazisti, mi rispondeva con una voce sempre più acuta: «Non capisci. Non vedi. Non vuoi vedere. Non vedi che tutto si sta disgregando sotto i nostri occhi? Tutto è a pezzi, in rovina. Camminiamo tra i frantumi e i detriti. Non c´è più nulla che regga. Tutti blaterano. Tutti parlano per dire male. Non c´è pietà né comprensione. Dappertutto c´è rancore, odio, ferocia, senza che, in realtà, nulla distingua le idee degli uni da quelle degli altri. I magistrati calunniano i magistrati, gli uomini di chiesa gli uomini di chiesa. Tutti infieriscono contro tutti».
«Se penso ai democristiani di trenta o quaranta anni fa, continuò, mi sembrano dei giganti. Non riuscivo a distinguerli. Rumor era come Colombo, Bisaglia come Piccoli o Forlani. Avevano vissuto tra gli arcivescovadi, le sacrestie, le scuole e le associazioni cattoliche; e della loro esistenza nascosta conservavano una specie di profumo: un profumo di tisane, sonno, sudore, borotalco e marmellata di prugne. Avevano la stessa faccia: un viso molle e un poco informe, il naso annegato tra le guance, i capelli tra il bruno e il biondiccio, gli occhi sbiaditi, un sorriso indeciso sulle labbra. Non ti guardavano negli occhi. Ti stringevano fiaccamente la mano. E, se cominciavano a parlarti, guardavano dall´altra parte».
«Non esibivano nessuna verità perentoria: le loro parole si perdevano in un bisbiglio materno e rassicurante. Non amavano la forza: né le costruzioni, i programmi, le decisioni, i progetti. Avevano un´idea passiva della politica. Lasciavano che le cose accadessero, e le assecondavano con una mano molle e paziente. E se qualcuno si levava contro di loro, un istinto profondo li spingeva a non offrire resistenza, ad arretrare e ad abbarbicarsi al suolo. Finché il nemico si estendeva troppo, si spossava, si sfiniva; e allora essi lo avvolgevano, lo penetravano, lo trasformavano a poco a poco in loro stessi, con quell´arte dell´assimilazione in cui erano maestri. Era il metodo con il quale Kutuzov, in Guerra e Pace, sconfigge Napoleone».
«Pensa a cosa sono i politici di oggi: a sinistri demagoghi come Umberto Bossi e Antonio Di Pietro. Allora, gli elettori li avrebbero presi a calci. Non avrebbero nemmeno tollerato che si presentassero alle elezioni. Li avrebbero cancellati dalle liste elettorali».
«Oggi, in Italia, non esistono più uomini politici. Ne esiste uno: Giorgio Napolitano, che regge da solo sulle spalle l´intero paese. Se non ci fosse lui, tutto crollerebbe. Io non amo la politica, lo sai. Detesto quella mescolanza di forza, segreto, ipocrisia, arte del compromesso, che forma il carattere degli uomini politici. Esecro la loro presunzione di condurre la storia, come se guidassero una carrozza a cavalli. Ma, mai come in questi anni, mi rendo conto che l´arte della politica è necessaria. Ci vuole la durezza, la tensione, la pazienza, il dono del futuro, il giusto orgoglio, la discrezione, il silenzio, che possedevano uomini come De Gasperi. Oggi sono qualità completamente assenti».
«Guardali, i politici del 2009. Vogliono soltanto una cosa: apparire, esibirsi, esaltarsi: naturalmente alla televisione. Sono figli della televisione, che li ha completamente contagiati e contaminati. Chiaccherano. Non hanno peso né riserve. Sono irreali, come la televisione. Pensano che il gradimento televisivo sia tutto, mentre non importa nulla. Non sanno fare né preparare. Tra pochissimo, non li vedremo più. All´improvviso scompariranno, insieme al nostro paese: come un corteo di nuvole, come un´accolita di fantasmi».
Fruttero si arrestò. Forse si vergognava di aver parlato tanto, e di aver alzato la voce, come un padre della patria. Si sedette. E cominciammo a parlare delle lettere che Flaubert aveva scritto per anni a Louise Colet, al tempo di Madame Bovary.