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 2009  ottobre 16 Venerdì calendario

(3 ARTICOLI)

Palazzo Chigi denuncia il Times «Mai pagati gruppi talebani»-

Afghanistan, soldato italiano muore in un incidente

ROMA – Silvio Berlusconi ieri, ha fatto negare che il suo governo abbia autorizzato di pagare talebani in danaro affin­ché risparmiassero attacchi contro i nostri militari in Af­ghanistan. Un po’ sibillina­mente, poi, in una nota di Pa­lazzo Chigi messa a punto in mattinata il presidente del Consiglio ha voluto aggiunge­re di non essere al corrente di via libera del genere da parte di Romano Prodi.

«Spazzatura» è stata la defi­nizione assegnata dal ministro della Difesa Ignazio La Russa all’articolo del quotidiano bri­tannico The Times secondo il quale, invece, è con mazzette per decine di migliaia di dolla­ri che in passato i servizi segre­ti italiani avrebbero evitato ai connazionali agguati nella zo­na di Sorobi. «Campagna an­ti- italiana», ha accusato il mi­nistro del Pdl annunciando di voler querelare la testata. Nel­la notte, il capovolgimento di un blindato Lince tra Herat e Shindad aveva causato la mor­te di un alpino, Rosario Ponzia­no. Alle due smentite ne sono seguite una di un portavoce militare francese (articolo «in­fondato ») e un «a noi non ri­sulta alcuna informazione in­terna » di uno della Nato. Il ca­so e la fattispecie degli scambi soldi-sicurezza, tuttavia, appa­iono più complessi di un quiz dalle sole risposte tutto vero o tutto falso.

La zona di Sorobi, a Est di Kabul, è passata a metà 2008 dal comando del nostro Paese a quello della Francia. Secon­do il Times , il 18 agosto se­guente sarebbe stata la man­canza di spiegazioni italiane su come si era garantita una certa tranquillità a far cogliere di sorpresa una pattuglia fran­cese: un’imboscata talebana costò dieci morti.

«Non sappiamo se i servizi hanno fatto ciò di cui parla il Times », ha detto uno dei più fedeli nel Pdl a Berlusconi, Fa­brizio Cicchitto, membro del Comitato parlamentare sugli apparati di sicurezza. «In ogni caso, il crimine che verrebbe attribuito ai nostri 007, cioè di aver lavorato per evitare guai alle nostre truppe, non è un crimine, ma secondo me fa parte del loro lavoro», è stato il suo attestato di fiducia, adat­to a dare agli agenti la sensa­zione di non essere privi di co­pertura dalla maggioranza. Francesco Cossiga ha riserva­to alla tesi britannica sulle mazzette un commento tra il sarcastico e il professionale («Legittime, anzi doverose per la tutela dei nostri militari, le operazioni ’commerciali’...») e si è augurato che la smentita di Palazzo Chigi derivi dal «cri­terio curialesco» per cui «si smentiscono le notizie vere perché quelle false si smenti­scono da sole». Che l’esigenza di opporre una versione negativa al Ti­mes sia stata avvertita presto è indubbio. Palazzo Chigi ha so­stenuto «che il governo Berlu­sconi non ha mai autorizzato né consentito alcuna forma di pagamento di somme di dana­ro » a «membri dell’insorgen­za » e «né ha cognizione di si­mili iniziative attuate dal pre­cedente governo». Il Berlusco­ni IV è in carica dall’8 maggio 2008. La nota «esclude» che nel giugno 2008 l’allora amba­sciatore degli Usa Ronald Spo­gli, come riferito dal giornale, abbia inoltrato al governo Ber­lusconi «un formale reclamo» per pagamenti a Herat. L’amba­sciata Usa, ieri: «Non commen­tiamo conversazioni che pos­sono avere o non avere avuto luogo». Una conferma? No. Smentita neppure, però.

Il negoziato che c’è Lo guidano un generale e un ex del mullah-

Barba all’henné, turbante e occhio guercio. Degli anni al potere con i tale­bani, Arsalan Rahmani ha conservato l’atteggiamento austero, uno sfregio in comune con il mullah Omar, i contatti con gli ex colleghi di regime. Scappato in Pakistan e ritornato nel 2005, è anco­ra nella lista punitiva delle Nazioni Uni­te, ma è entrato in quella dei «modera­ti » che il presidente Hamid Karzai con­sidera indispensabili per tentare un ne­goziato con i vertici della shura di Quet­ta, il governo-Stato maggiore degli in­tegralisti.

Un anno fa, mese di Ramadan, il se­natore afghano si è seduto al tramonto con il re saudita Abdullah per rompere il giorno di digiuno e ascoltare le richie­ste della delegazione talebana, guidata alla Mecca da Mohammed Tayyib Agha, cugino e portavoce del mullah Omar. Che avrebbe portato a tavola la garanzia di aver spezzato l’alleanza con Al Qaeda. Rahmani non le vuol chiama­re «trattative dirette, sono dei contatti sul terreno, che ci permettono di far ar­rivare i messaggi fino al vertice». An­che perché – ammette – i fondamen­talisti non sono pronti ad accettare un vero negoziato, «fino a quando le trup­pe internazionali non lasceranno il Pae­se » .

La villa di questo ex ministro del re­gime sta in mezzo ai palazzi del potere. Dall’altra parte della strada, c’è l’ufficio per la Pace e la Riconciliazione, il piano voluto da Karzai e guidato dal suo men­tore Sibghatullah Mojaddedi, che è sta­to il primo presidente dopo il ritiro so­vietico. Gli americani hanno tagliato i fondi al progetto, perché i tre milioni di dollari per comprare i pastori con il fucile avrebbero stipendiato solo i fede­lissimi di Mojaddedi. I funzionari ri­spondono alle critiche con i numeri dei «convertiti»: 950 prigionieri di Guantanamo e Bagram rilasciati sotto la garanzia dei boss tribali, 22 esponen­ti talebani (e 8.300 combattenti) che hanno scelto di garantire con il pollice bagnato d’inchiostro l’appoggio al go­verno centrale.

Di quelli che restano (l’esercito inte­gralista è ancora stimato tra gli 11 ei 20 mila uomini) si occupa adesso Graeme Lamb. Il generale ha rinunciato alla pensione davanti a un piatto di fajitas, quando in un ristorante messicano dal­le parti del Pentagono, Stanley McChry­stal, comandante della coalizione in Af­ghanistan, gli ha chiesto di ripetere l’operazione-diplomazia che l’ex uffi­ciale dello Special Air Service britanni­co aveva già coordinato per lui in Iraq, negoziando con le tribù sunnite.

Le linee per trattare con i talebani so­no state trasmesse dalla squadra di Lamb ai militari sul campo. Seguono le tre «d»: definire, dialogare, desistere. I soldati «definiscono» l’influenza e il potere di un comandante integralista, «dialogano» con lui per costruire un rapporto di fiducia, fino a farlo «desi­stere » dai combattimenti. Il Consiglio per la sicurezza nazionale – scrive il Los Angeles Times – vuole usare gli agenti della Cia come intermediari e la lealtà verrebbe comprata in contanti.

E’ quello che hanno fatto i britannici nel 2007, secondo rivelazioni del quoti­diano Times . Allora quei 3 milioni di dollari spesi al mercato delle alleanze avevano infastidito i vertici americani, adesso la strategia sembra diventata ac­cettabile, «anche se non ha prodotto i risultati che ci aspettavamo», ammette un diplomatico del Foreign Office. I ta­lebani avevano ridotto l’intensità degli attacchi solo per un breve periodo. Co­me già avvertiva sessant’anni fa Sir Olaf Caroe, governatore per Sua Mae­stà della North-West Frontier Provin­ce: «Il primo pagamento viene effettua­to e l’atmosfera generale di buona vo­lontà sembra promettere una pace pe­renne. Non è mai stato così».



«I servizi comprano le informazioni, non la sicurezza»-
ROMA – «In tutte le guerre i servizi segreti cercano di comprare qualcosa», dice Franco Angioni, il generale dei parà che nel 1982 guidò le missioni in Libano.
 normale che gli agenti segreti offrano soldi?
«Dobbiamo fare una distinzione fra guerre tradizionali e guerre asimmetriche, come quella in corso in Afghanistan. Nelle guerre tradizionali i servizi segreti nel 95 per cento dei casi cercano di comprare informazioni utili. E a volte anche operazioni militari. Questo è possibile perché il nemico ha una gerarchia e una disciplina. Ma nelle guerre moderne non è più possibile».

Cosa è cambiato?

«Anzitutto non si sa chi sia il nemico. Si ha a che fare con tanti piccoli gruppi. Da ognuno di loro si possono comprare informazioni, ma non operazioni, non la sicurezza di essere al riparo da attacchi. Nessuno è in grado di dare garanzie. Anche se pago tutti i gruppi ci può essere sempre il cane sciolto che compie un attentato».

Quindi lei non crede che i servizi italiani abbiano pagato i talebani?

«Il mondo dei servizi è oscuro e non saprei dire. Però, se offrire aiuto alla gente, medicine, viveri, protezione per conquistare la fiducia, se tutto questo significa comprare, allora dico che è doveroso comprare. E se ce lo rimproverano, non ci fa né caldo né freddo».

Anche durante le missioni in Libano si parlò di pagamenti.

«Fu una cosa ignobile. Si disse che Andreotti, grazie ai suoi buoni rapporti col mondo arabo, aveva in pratica fatto comprare la tranquillità per il contingente italiano. Ma nessuno spiegava come mai gli americani, che disponevano di notevoli somme, subirono sanguinosi attacchi, e come mai i francesi ci rimisero 89 uomini. Qualcuno non gradì il fatto che a noi fosse andata bene e disse che avevamo comprato il nemico».

Secondo lei, un contingente militare che viene di colpo catapultato in mezzo a gente ostile, in un ambiente infido, come deve comportarsi?

«Posso raccontare come ci siamo comportati noi in Libano. E lo dico con un certo orgoglio perché ho sentito di recente un generale americano, Petraeus, sentenziare che bisogna parlare con il nemico. Per me ha scoperto l’acqua calda».

Nel senso che per voi era una pratica normale parlare col nemico?

« la prima cosa da fare. Appena arrivato in Libano mi son fatto indicare i capi delle varie fazioni, tutti quelli che potevano nutrire ostilità nei confronti delle forze multinazionali. Ho parlato a quattr’occhi con ciascuno di loro. Ricordo che il primo fu l’erede del famoso imam Musa al-Sadr scomparso nel nulla durante un viaggio fra Libia e Italia. Dissi: noi vogliamo essere vostri amici, proteggervi, ma dovete far sparire le armi. Lui disse: noi nasciamo con le armi in mano. Allora, dissi, nascondetele. Quando vide che toglievamo le armi a un cristiano maronita, diede ordini agli sciiti di circolare disarmati».

Lei diceva che anche gli americani cominciano a convincersi che è necessario parlare col nemico.

«Gli americani sono manichei: noi siamo i buoni, loro sono i cattivi e vanno picchiati e basta. Non è così. Con un certa amarezza vedo che solo adesso qualche generale si è accorto dell’opportunità di coinvolgere la gente. Si fossero comportati così dall’inizio, le cose in Afghanistan sarebbero andate in modo diverso».