Maurizio Caprara,Davide Frattini E Marco Nese, Corriere della sera 16/10/2009, 16 ottobre 2009
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Palazzo Chigi denuncia il Times «Mai pagati gruppi talebani»-
Afghanistan, soldato italiano muore in un incidente
ROMA – Silvio Berlusconi ieri, ha fatto negare che il suo governo abbia autorizzato di pagare talebani in danaro affinché risparmiassero attacchi contro i nostri militari in Afghanistan. Un po’ sibillinamente, poi, in una nota di Palazzo Chigi messa a punto in mattinata il presidente del Consiglio ha voluto aggiungere di non essere al corrente di via libera del genere da parte di Romano Prodi.
«Spazzatura» è stata la definizione assegnata dal ministro della Difesa Ignazio La Russa all’articolo del quotidiano britannico The Times secondo il quale, invece, è con mazzette per decine di migliaia di dollari che in passato i servizi segreti italiani avrebbero evitato ai connazionali agguati nella zona di Sorobi. «Campagna anti- italiana», ha accusato il ministro del Pdl annunciando di voler querelare la testata. Nella notte, il capovolgimento di un blindato Lince tra Herat e Shindad aveva causato la morte di un alpino, Rosario Ponziano. Alle due smentite ne sono seguite una di un portavoce militare francese (articolo «infondato ») e un «a noi non risulta alcuna informazione interna » di uno della Nato. Il caso e la fattispecie degli scambi soldi-sicurezza, tuttavia, appaiono più complessi di un quiz dalle sole risposte tutto vero o tutto falso.
La zona di Sorobi, a Est di Kabul, è passata a metà 2008 dal comando del nostro Paese a quello della Francia. Secondo il Times , il 18 agosto seguente sarebbe stata la mancanza di spiegazioni italiane su come si era garantita una certa tranquillità a far cogliere di sorpresa una pattuglia francese: un’imboscata talebana costò dieci morti.
«Non sappiamo se i servizi hanno fatto ciò di cui parla il Times », ha detto uno dei più fedeli nel Pdl a Berlusconi, Fabrizio Cicchitto, membro del Comitato parlamentare sugli apparati di sicurezza. «In ogni caso, il crimine che verrebbe attribuito ai nostri 007, cioè di aver lavorato per evitare guai alle nostre truppe, non è un crimine, ma secondo me fa parte del loro lavoro», è stato il suo attestato di fiducia, adatto a dare agli agenti la sensazione di non essere privi di copertura dalla maggioranza. Francesco Cossiga ha riservato alla tesi britannica sulle mazzette un commento tra il sarcastico e il professionale («Legittime, anzi doverose per la tutela dei nostri militari, le operazioni ’commerciali’...») e si è augurato che la smentita di Palazzo Chigi derivi dal «criterio curialesco» per cui «si smentiscono le notizie vere perché quelle false si smentiscono da sole». Che l’esigenza di opporre una versione negativa al Times sia stata avvertita presto è indubbio. Palazzo Chigi ha sostenuto «che il governo Berlusconi non ha mai autorizzato né consentito alcuna forma di pagamento di somme di danaro » a «membri dell’insorgenza » e «né ha cognizione di simili iniziative attuate dal precedente governo». Il Berlusconi IV è in carica dall’8 maggio 2008. La nota «esclude» che nel giugno 2008 l’allora ambasciatore degli Usa Ronald Spogli, come riferito dal giornale, abbia inoltrato al governo Berlusconi «un formale reclamo» per pagamenti a Herat. L’ambasciata Usa, ieri: «Non commentiamo conversazioni che possono avere o non avere avuto luogo». Una conferma? No. Smentita neppure, però.
Il negoziato che c’è Lo guidano un generale e un ex del mullah-
Barba all’henné, turbante e occhio guercio. Degli anni al potere con i talebani, Arsalan Rahmani ha conservato l’atteggiamento austero, uno sfregio in comune con il mullah Omar, i contatti con gli ex colleghi di regime. Scappato in Pakistan e ritornato nel 2005, è ancora nella lista punitiva delle Nazioni Unite, ma è entrato in quella dei «moderati » che il presidente Hamid Karzai considera indispensabili per tentare un negoziato con i vertici della shura di Quetta, il governo-Stato maggiore degli integralisti.
Un anno fa, mese di Ramadan, il senatore afghano si è seduto al tramonto con il re saudita Abdullah per rompere il giorno di digiuno e ascoltare le richieste della delegazione talebana, guidata alla Mecca da Mohammed Tayyib Agha, cugino e portavoce del mullah Omar. Che avrebbe portato a tavola la garanzia di aver spezzato l’alleanza con Al Qaeda. Rahmani non le vuol chiamare «trattative dirette, sono dei contatti sul terreno, che ci permettono di far arrivare i messaggi fino al vertice». Anche perché – ammette – i fondamentalisti non sono pronti ad accettare un vero negoziato, «fino a quando le truppe internazionali non lasceranno il Paese » .
La villa di questo ex ministro del regime sta in mezzo ai palazzi del potere. Dall’altra parte della strada, c’è l’ufficio per la Pace e la Riconciliazione, il piano voluto da Karzai e guidato dal suo mentore Sibghatullah Mojaddedi, che è stato il primo presidente dopo il ritiro sovietico. Gli americani hanno tagliato i fondi al progetto, perché i tre milioni di dollari per comprare i pastori con il fucile avrebbero stipendiato solo i fedelissimi di Mojaddedi. I funzionari rispondono alle critiche con i numeri dei «convertiti»: 950 prigionieri di Guantanamo e Bagram rilasciati sotto la garanzia dei boss tribali, 22 esponenti talebani (e 8.300 combattenti) che hanno scelto di garantire con il pollice bagnato d’inchiostro l’appoggio al governo centrale.
Di quelli che restano (l’esercito integralista è ancora stimato tra gli 11 ei 20 mila uomini) si occupa adesso Graeme Lamb. Il generale ha rinunciato alla pensione davanti a un piatto di fajitas, quando in un ristorante messicano dalle parti del Pentagono, Stanley McChrystal, comandante della coalizione in Afghanistan, gli ha chiesto di ripetere l’operazione-diplomazia che l’ex ufficiale dello Special Air Service britannico aveva già coordinato per lui in Iraq, negoziando con le tribù sunnite.
Le linee per trattare con i talebani sono state trasmesse dalla squadra di Lamb ai militari sul campo. Seguono le tre «d»: definire, dialogare, desistere. I soldati «definiscono» l’influenza e il potere di un comandante integralista, «dialogano» con lui per costruire un rapporto di fiducia, fino a farlo «desistere » dai combattimenti. Il Consiglio per la sicurezza nazionale – scrive il Los Angeles Times – vuole usare gli agenti della Cia come intermediari e la lealtà verrebbe comprata in contanti.
E’ quello che hanno fatto i britannici nel 2007, secondo rivelazioni del quotidiano Times . Allora quei 3 milioni di dollari spesi al mercato delle alleanze avevano infastidito i vertici americani, adesso la strategia sembra diventata accettabile, «anche se non ha prodotto i risultati che ci aspettavamo», ammette un diplomatico del Foreign Office. I talebani avevano ridotto l’intensità degli attacchi solo per un breve periodo. Come già avvertiva sessant’anni fa Sir Olaf Caroe, governatore per Sua Maestà della North-West Frontier Province: «Il primo pagamento viene effettuato e l’atmosfera generale di buona volontà sembra promettere una pace perenne. Non è mai stato così».
«I servizi comprano le informazioni, non la sicurezza»-
ROMA – «In tutte le guerre i servizi segreti cercano di comprare qualcosa», dice Franco Angioni, il generale dei parà che nel 1982 guidò le missioni in Libano.
normale che gli agenti segreti offrano soldi?
«Dobbiamo fare una distinzione fra guerre tradizionali e guerre asimmetriche, come quella in corso in Afghanistan. Nelle guerre tradizionali i servizi segreti nel 95 per cento dei casi cercano di comprare informazioni utili. E a volte anche operazioni militari. Questo è possibile perché il nemico ha una gerarchia e una disciplina. Ma nelle guerre moderne non è più possibile».
Cosa è cambiato?
«Anzitutto non si sa chi sia il nemico. Si ha a che fare con tanti piccoli gruppi. Da ognuno di loro si possono comprare informazioni, ma non operazioni, non la sicurezza di essere al riparo da attacchi. Nessuno è in grado di dare garanzie. Anche se pago tutti i gruppi ci può essere sempre il cane sciolto che compie un attentato».
Quindi lei non crede che i servizi italiani abbiano pagato i talebani?
«Il mondo dei servizi è oscuro e non saprei dire. Però, se offrire aiuto alla gente, medicine, viveri, protezione per conquistare la fiducia, se tutto questo significa comprare, allora dico che è doveroso comprare. E se ce lo rimproverano, non ci fa né caldo né freddo».
Anche durante le missioni in Libano si parlò di pagamenti.
«Fu una cosa ignobile. Si disse che Andreotti, grazie ai suoi buoni rapporti col mondo arabo, aveva in pratica fatto comprare la tranquillità per il contingente italiano. Ma nessuno spiegava come mai gli americani, che disponevano di notevoli somme, subirono sanguinosi attacchi, e come mai i francesi ci rimisero 89 uomini. Qualcuno non gradì il fatto che a noi fosse andata bene e disse che avevamo comprato il nemico».
Secondo lei, un contingente militare che viene di colpo catapultato in mezzo a gente ostile, in un ambiente infido, come deve comportarsi?
«Posso raccontare come ci siamo comportati noi in Libano. E lo dico con un certo orgoglio perché ho sentito di recente un generale americano, Petraeus, sentenziare che bisogna parlare con il nemico. Per me ha scoperto l’acqua calda».
Nel senso che per voi era una pratica normale parlare col nemico?
« la prima cosa da fare. Appena arrivato in Libano mi son fatto indicare i capi delle varie fazioni, tutti quelli che potevano nutrire ostilità nei confronti delle forze multinazionali. Ho parlato a quattr’occhi con ciascuno di loro. Ricordo che il primo fu l’erede del famoso imam Musa al-Sadr scomparso nel nulla durante un viaggio fra Libia e Italia. Dissi: noi vogliamo essere vostri amici, proteggervi, ma dovete far sparire le armi. Lui disse: noi nasciamo con le armi in mano. Allora, dissi, nascondetele. Quando vide che toglievamo le armi a un cristiano maronita, diede ordini agli sciiti di circolare disarmati».
Lei diceva che anche gli americani cominciano a convincersi che è necessario parlare col nemico.
«Gli americani sono manichei: noi siamo i buoni, loro sono i cattivi e vanno picchiati e basta. Non è così. Con un certa amarezza vedo che solo adesso qualche generale si è accorto dell’opportunità di coinvolgere la gente. Si fossero comportati così dall’inizio, le cose in Afghanistan sarebbero andate in modo diverso».