Annick Cojean, La stampa 16/10/2009, 16 ottobre 2009
L’ULTIMA BATTAGLIA DI GERONIMO
Geronimo non riposa in pace. Cent’anni dopo la sua morte a Fort Sill, in Oklahoma, il suo spirito continua a vagare senza fine. Perché, sostengono i suoi discendenti, non ha potuto far ritorno alla sua terra natia, accanto all’albero dove fu deposto il suo cordone ombelicale, alle fonti della Gila, nel Nuovo Messico. «Questo pensiero mi ossessiona - dice Harlyn Geronimo, pronipote del guerriero Apache e capofila dei custodi della sua memoria -. Come posso accettare l’idea che il più grande guerriero indiano di tutti i tempi, che ha difeso la sua terra, il suo popolo, la sua libertà senza mai essere battuto, non possa concludere serenamente il grande ciclo della sua vita? Noi gli dobbiamo una sepoltura conforme ai suoi desideri. Cent’anni dopo la sua morte urge liberarlo».
Breve silenzio. Poi l’annuncio: «Insieme ad altri 19 discendenti diretti ho citato in giudizio il presidente americano e il segretario alla Difesa per ottenere il trasferimento dei resti di Geronimo nella sua terra natale. Spero di riuscirci entro l’anno». Il tono è calmo, lo sguardo dritto, penetrante come una lama. Viene spontaneo cercare una somiglianza con la prima fotografia dell’avo, nel 1884: fucile in mano, mascella serrata, occhio penetrante. Harley se ne compiace.
Invitato a parlare all’Università del Maine, intende portare alta la bandiera di questo bisnonno la cui aura ha illuminato la sua infanzia e al quale ha reso omaggio in un bel libro scritto da Corine Sombrun (Sur les pas de Geronimo, Albin Michel, 2008). Non è forse stato cullato dai racconti di Iteeda, una delle mogli di Geronimo, la cui vita è stata abbastanza lunga - è morta nel 1954 - da riuscire a trasmettere al pronipote, nato nel 1947, un poco della leggenda? E non ha forse ricevuto da lei il potere, le conoscenze e la cultura degli sciamani? «Diciamo che conosco le piante e so curare - dice Harlyn Geronimo -. Padroneggio le preghiere e posso officiare nelle cerimonie Apache. E poi faccio sogni, sogni premonitori».
Gli capita anche di ricevere in sogno la risposta a una domanda infilata in mezzo alle preghiere. Un dono che ha in comune con l’avo. «Era uno sciamano di guerra, veniva consultato prima delle battaglie. I sogni gli dettavano i comportamenti per vincere, a volte lo avvertivano di incursioni a sorpresa da parte dei bianchi. E’ questo che lo rendeva pressoché invincibile».
Invincibile e mitico. I paracadutisti americani - soprattutto quelli dello sbarco in Normandia - urlavano «Geronimo!» prima di lanciarsi nel vuoto. La vita del capo Apache è stata portata più volte sullo schermo. La sua tomba, in Oklahoma, è diventata un’attrazione turistica al punto che alcuni si preoccupano all’idea che venga trasferita altrove. Entusiasmo paradossale per un uomo che l’esercito americano voleva morto. Geronimo stesso se ne stupiva quando, tenuto prigioniero per gli ultimi vent’anni della sua vita, vedeva arrivare turisti avidi di oggetti degli Apache, pronti a pagare caro il suo copricapo, l’arco, la faretra, purché li firmasse. Già ai suoi tempi, quando non possedeva nulla e vedeva decimare dalle malattia la sua famiglia e il suo popolo, il suo nome valeva oro.
«Per la parata inaugurale nel marzo 1905 a Washington - racconta Harlyn - il neopresidente Theodore Roosevelt lo fece sfilare a cavallo sulla Pennsylvania Avenue. La folla lanciava in aria i cappelli gridando ”Hurrah per Geronimo”. Fu lui la star della giornata!». Quando però, qualche giorno dopo, supplicò «il grande capo bianco» di liberarlo per lasciarlo morire nella sua terra, Roosevelt fu irremovibile. E Geronimo si spense, dopo un ultimo tentativo di fuga, a mille chilometri dalle sorgenti della Gila.
Harlyn Geronimo non perdona l’affronto. Ma Obama non ha portato, a tutte le minoranze etniche, un po’ di speranza? Harlyn è circospetto: «Ha nominato un pugno di indiani in alcuni posti importanti della sua Amministrazione. E’ un segno. Ma la storia dei neri d’America non ha nulla a che vedere con quella dei suoi primi abitanti».
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